LA STORIA DI TRIORADALLA PREISTORIA ALLA FINE DEL MEDIOEVO
L'alta valle Argentina, e in particolare la zona di Triora, risulta abitata fin dalla più remota antichità da piccole tribù che avevano trovato rifugio all'interno di grotte o anfratti naturali. I più antichi resti archeologici che testimoniano la presenza di vita umana nel territorio triorese risalgono al periodo del Neolitico medio, collocabile all'incirca tra il 3800 e il 3000 a.C.
In tale periodo si sviluppò nell'Italia settentrionale la cosiddetta "Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata", chiamata in questo modo proprio per la caratteristica foggia dei vasi che allora venivano prodotti dalla diverse popolazioni preistoriche. Le genti portatrici di questa cultura, che sembra si sia sviluppata per tutto il corso del IV millennio a.C., hanno lasciato testimonianze della loro civiltà in molte grotte e anfratti del Finalese, tra cui le più importanti sono la Caverna delle Arene Candide e quella di Pollera.
Nei pressi di Triora sono stati recentemente rinvenuti due importanti siti archelogici risalenti al periodo del Neolitico medio: l'Arma della Gastéa e la Tana della Volpe. L'Arma della Gastéa o Arma Mamela, situata nelle immediate vicinanze dell'abitato di Borniga, una borgata di Realdo, alla sinistra del rio omonimo, presenta un'apertura, di forma triangolare, costituita da calcari nummulitici del Luteziano ed è posta all'altezza di circa 1270 metri. La cavità è formata da una stretta galleria rettilinea che tende a restringersi progressivamente verso l'interno. L'anfratto, non abitabile a causa delle particolari condizioni climatiche dell'ambiente, era adibito a luogo di sepoltura collettiva in due distinti periodi, come attestano i corredi funebri rinvenuti nella grotta insieme alle ossa di non meno di quattro individui. L'occupazione più antica della grotta è attribuibile al Neolitico medio per la presenza di un unico frammento di orlo di vaso a bocca quadrata; allo stesso periodo dovrebbero risalire anche alcune piccole conchiglie marine forate per uso ornamentale ed alcune lamelle di fattura litica. Ad una fase più recente, collocabile tra il XIII e il XII secolo a.C., sono invece ascrivibili due spilloni in bronzo con capocchia di forma troncoconica forata, utilizzati per fermare vesti e mantelli all'altezza delle spalle.
La Tana della Volpe è invece costituita da una piccola cavità formatasi dall'accumulo di grossi massi franati, che si apre alla base di un'alta parete rocciosa all'altezza di circa 750 metri sulla riva destra del torrente Argentina dirimpetto all'abitato della frazione triorese di Loreto. Nel corso di varie esplorazioni archeologicheè venuto alla luce un deposito archeologico suddiviso in cinque distinti strati con uno spessore di circa 150 centimetri. Nel quarto strato, il più antico, sono stati trovati i frammenti di due o tre vasi a bocca quadrata risalenti al periodo del Neolitico medio, con una decorazione costituita da fasci di linee spezzate a zig-zag riscontrabile anche in alcuni vasi del tredicesimo strato delle Arene Candide. In questo strato sono stati anche rinvenuti vari altri reperti adibiti a svariati usi quali un punteruolo in osso, una lamella in selce, un pendaglio ricavato da una zanna di cinghiale e tre conchiglie destinate ad uso ornamentale.
Immediatamente sopra lo strato del Neolitico medio, si sviluppa per oltre 1 metro di spessore, occupando il terzo e il secondo strato, un vero e proprio ossario con i resti umani sparsi in modo disordinato tra le pietre e le fessure dell'anfratto. Il materiale archeologico è invece costituito da alcune centinaia di frammenti di vasi ad impasto. Nel terzo strato sono stati trovati vasi globulari con bugne e prese a linguetta e ollette a fondo piatto, riferibili ad un periodo compreso tra il Neolitico finale e l'Eneolitico, intorno alla metà del III millennio a.C.
Nel secondo strato sono stati rinvenuti reperti vascolari di fattura più recente: ciotole e tazze carenate, databili al Bronzo medio, ed olle e urne che presentano decorazioni "ad unghiate" e "a stecca", riferibili ad un periodo compreso tra il Bronzo tardo e la prima Età del Ferro. La Tana della Volpe rappresenta inoltre il punto più occidentale raggiunto dalle genti della "Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata" nel corso delle loro migrazioni nel territorio dell'Italia settentrionale.
Sul successivo periodo preistorico del Neolitico superiore (3000-2500 a.C.), caratterizzato in Liguria dalla "Cultura Chassey-Lagozza", non sono venute finora alla luce testimonianze attendibili sulla presenza dell'uomo nel territorio triorese. Tuttavia, ad una fase finale di questo periodo, definita da Bernabò Brea "sublagozza", potrebbero essere attribuiti i vasi globulari e le tazze carenate ritrovate nella Cava di Loreto e parte del materiale ceramico rinvenuto nel terzo strato della Tana della Volpe.
Il periodo Eneolitico, che va dal 2500 al 1800 a.C., corrispondente all'introduzione e alla lavorazione del primo metallo, il rame, è caratterizzato nella zona di Triora dalla presenza di una serie di cavernette sepolcrali e anfratti rocciosi, che testimoniano l'esistenza di una avanzata e prospera civiltà pastorale estesa fino al mare tramite le vie della transumanza passanti per Tenda e Monte Bego, con significativi elementi coevi alla civiltà dolmenica e calcolitica della Provenza e della Linguadoca, e, a partire dal 2200 circa, anche della "Cultura del Vaso Campaniforme", di origine iberica.
Tra le varie grotte risalenti all'Eneolitico le più importanti ubicate nel territorio triorese sono l'Arma della Grà di Marmo, nota anche come Grotta di Realdo, che si apre alla sommità dell'alta falesia calcarea nummulitica del Luteziano, nell'area immediatamente sottostante gli orti che circondano l'abitato di Realdo e contiene numerosi reperti preistorici tra cui un deposito sepolcrale, composto da uno spesso ammasso di ossa umane collocate all'interno di una fossa ed un ricco corredo funerario tipicamente eneolitico, oggetti ornamentali in ceramica e in rame, frecce in selce e diaspro, un ago ricavato da una zanna di cinghiale, centinaia di collane di perle e in particolare di "perle ad alette", caratteristico elemento decorativo appartenente alle culture pastorali eneolitiche dell'area calcarea della Linguadoca. L'Arma della Vigna, situata nei pressi della Tana della Volpe a 640 metri di altitudine, che conserva reperti in marmo, quali vaghi di una collana, due "perle ad alette", quattro perle a tre lobi e cinque perle a croce, e in ceramica, tra resti di vasi ad impasto grezzo e di una ciotola a pareti sottili con impasto depurato; e la stazione della Cava di Loreto, situata a 400 metri a nord della chiesetta di Nostra Signora di Loreto, poco distante dall'Arma della Vigna, che testimonia, tramite numerosi reperti, tra cui un vaso in puro stile "marittimo" con decorazione composta da tredici bande orizzontali parallele e altrettante bande inornate, frammenti ceramici di olle, orcioli e tazze, e oggetti in osso e conchiglia, la presenza in questa zona della "Cultura del Vaso Campaniforme" nella fase più antica del suo sviluppo, collocabile intorno al 2000 circa a.C.
La civiltà pastorale delle popolazioni abitanti in grotte sepolcrali continuò a sussistere nel territorio dell'alta valle Argentina anche nel periodo della successiva età del Bronzo (1800-750 a.C.), subendo peraltro gli influssi delle culture di Polada e del Rodano nella fase più antica e di quelle delle Terramare e dei Campi d'Urne nel Bronzo medio e tardo. I nuclei abitativi più significativi risalenti a questo periodo sono quelli rinvenuti nel Pertuso, noto anche come Grotta di Goina, situato nell'alta valle del Capriolo all'altezza di 1300 metri di altitudine, in cui sono stati trovati una notevole quantità di ossa umane, frammenti di vasi in ceramica e vari oggetti ornamentali, costituiti da una quarantina di perline piatte ricavate da valve di conchiglie e una perla trilobata in pasta vitrea, e nel Buco del Diavolo, una profonda cavità di origine carsica situata nella parte alta della parete detta del "Bausu Longu" a 1430 metri di quota, nelle vicinanze di Borniga, formata da due distinte aperture situate a 30 metri di dislivello l'una dall'altra, che conserva ossa umane e interessanti reperti archeologici risalenti all'età del Bronzo costituiti da otto armille a nastro carenato e decorazione di tipo geometrico, un collare ritorto e bracciali anch'essi a nastro carenato e decorazioni costituite da un motivo centrale di forma ovale.
Significative testimonianze attestano la presenza di una avanzata comunità alpestre nel territorio di Triora nel periodo dell'età del Ferro, dal 750 a.C. alla romanizzazione della regione. In particolare sono stati rinvenuti reperti risalenti alla fase più antica di questo periodo (VIII-V secolo a.C.) nel secondo strato della Tana della Volpe, quali frammenti di olle o urne presentanti decorazioni "a stecca" e "ad unghiate", tipo Rossiglione, caratteristici di molti altri insediamenti umani della Liguria occidentale preromana.
Sulla cima del Bric Castellaccio, a 1275 metri di altitudine, nei pressi dell'abitato di Borniga, sono stati trovati resti attestanti l'esistenza sul luogo di un castellaro abitato da Liguri montani, quali frustoli di ceramica ad impasto, una macina a mano e frammenti del collo di un'anfora romana.
Nel II secolo a.C. gli abitanti di Triora facevano parte della tribù ligure degli Albingauni, che insieme agli Intemelii ed ai Savo sostennero una lunga ed estenuante guerra contro i Romani. La guerra, resa ancora più difficile dalla pervicace resistenza opposta dai Liguri alla penetrazione romana e dalla conformazione fisica del territorio particolarmente impervio, durò oltre ottant'anni e terminò nel 115 a.C. con la sottomissione della Liguria a Roma.
Tra le 45 tribù o genti alpine assoggettate al dominio romano che sono riportate sulla lapide del trofeo di Augusto a La Turbie compare anche la tribù dei Triullates, che, secondo alcuni storici, sarebbero stati gli antichi abitatori di Triola, come era chiamata Triora nell'antichità e nel medioevo. Nonostante la conquista della regione da parte romana, i Liguri non si sottomisero ancora del tutto dando luogo a resistenze e ribellioni, a cui i Romani risposero con deportazioni in massa degli abitanti che si insubordinavano. Tra questi furono deportati nel piano del vallone Cians, primo affluente della sinistra del fiume Varo, anche dei Triulati, che potrebbero essere stati degli abitanti dell'antica Triora.
Durante il periodo imperiale Triora e il resto della Liguria godettero di particolare prosperità e ricchezza. Nel IV secolo Triora venne evangelizzata, insieme ad altri paesi del territorio intemelio e ingauno, da San Marcellino, primo vescovo di Embrun in Francia, e dai suoi compagni Vincenzo e Donnino, che erano giunti nell'alta valle Argentina dopo essere approdati dall'Africa sulla spiaggia di Nizza nell'anno 360. Nel periodo delle invasioni barbariche e dei regni romano-barbarici, Triora vide probabilmente aumentato il numero dei suoi abitanti a causa del fatto che numerosi abitanti della sottostante riviera si rifugiarono sulle vicine montagne per scampare alle numerose devastazioni operate dalle popolazioni barbariche e saracene, tra cui le più significative furono quella compiuta nel 641 dai Longobardi guidati da re Rotari e nel 730 da un manipolo di arabi che saccheggiò e incendiò il paese.
Durante la dominazione carolingia, succeduta a quella longobarda, Triora conobbe un periodo particolarmente oscuro, di cui non è rimasta alcuna traccia documentaria, se non la supposizione, avanzata da alcuni storici, tra cui Savio Fedele, che a questo periodo, tra l'VIII e il IX secolo, risalirebbe la costruzione, da parte di monaci benedettini, dell'antica chiesa-parrocchia altomedievale dedicata a San Pietro apostolo e a San Marziano martire, ubicata fuori le mura dell'abitato, come lo erano del resto tutte le parrocchie dei pagus, i villaggi dell'alto medioevo. La chiesa, oggi completamente scomparsa, venne distrutta dalle fondamenta nel 1878 per erigervi al suo posto una piazza d'armi.
Verso la metà del X secolo il re d'Italia Berengario II, per difendere le Alpi Marittime dalle incursioni saracene, divise il territorio ligure in tre marche: la Arduinica, la Aleramica e l'Obertenga. Triora venne assegnata alla marca Arduinica o contea di Albenga, che si estendeva lungo il litorale da Nizza a Finale. A ponente la marca Arduinica confinava con la contea di Ventimiglia presso il torrente Armea nei pressi di Bussana. La marca cessò di esistere nel 1091 con la morte dell'ultima contessa di Albenga, Adelaide.
Durante il IX e il X secolo si sviluppò anche a Triora l'economia feudale, basata sullo sfruttamento della terra quale unica ricchezza sociale. Fulcro dell'economia feudale era il sistema curtense, che si irradiava intorno al castello del feudatario. A Triora il castello dovette essere costituito dal Forte di San Dalmazzo, a cui era annessa la chiesa omonima e l'abitazione del signore. La corte era una vera e propria cittadella completamente autosufficiente, con i suoi magazzini, coloni e artigiani, e vendeva, comprava e barattava con i trioresi i prodotti della terra e i manufatti locali.
Nel territorio del feudo si distinguevano le terre dominiche, lavorate da coloni, e quelle massaricie, costituite da poderi abitati da coloni che pagavano un tributo al feudatario. Sul territorio di Triora erano ubicate circa una dozzina di queste massaricie o "mansuarie" (masserie), di cui si conservano ancora i resti sparsi sulle alture prospicienti il paese. In seguito, al feudatario successero i feudatari minori, detti anche vassalli, che dettero origine alle tre o quattro famiglie nobili e potenti del luogo. Estinti i conti, questi signorotti acquistarono quasi tutte le terre del paese, mentre le altre famiglie, più povere, dovettero accontentarsi di lavorare a mezzadria i terreni restanti. Frattanto, intorno al 1000, si era verificata una generale ribellione dei coloni nei confronti dei feudatari, a cui essi si rifiutarono di pagare i tributi e lavorare gratuitamente e occuparono le terre, obbligando i feudatari a venire a patti cedendo i terreni, mediante livelli e enfiteusi, ai coloni, che col tempo sarebbero diventati gli unici proprietari delle terre un tempo appartenenti ai feudatari.
Nella prima metà del secolo XII, dopo l'estinzione dei conti di Albenga con la morte della contessa Adelaide e il conseguente scioglimento della marca arduinica, Triora passò sotto il dominio dei conti di Ventimiglia, pur rimanendo sotto la giurisdizione religiosa del vescovo di Albenga. In tale occasione i conti di Ventimiglia accrebbero notevolmente il proprio territorio, inglobando, oltre a Triora, gli altri paesi della valle Argentina, e le valli del Maro, dell'Impero e dell'Arroscia. Tali possedimenti erano stati in precedenza oggetto di aspre e sanguinose contese con gli Aleramici. Fu proprio durante questi dissidi che la Repubblica di Genova riuscì a stringere il 2 luglio 1140 un patto di alleanza con i figli di Bonifacio, marchese di Savona, i quali si impegnarono a soggiogare Ventimiglia e la sua contea e ad assoggettare con le armi le popolazioni che abitavano dal fiume Armea sino a Finale e nel relativo entroterra.
La stipulazione di tale trattato può essere orientativamente indicata come l'inizio dell'espansione ventimigliese oltre il fiume Armea e del passaggio di Triora sotto il dominio dei conti di Ventimiglia, ma propriamente del conte di Badalucco, che apparteneva ad un ramo collaterale della dinastia regnante a Ventimiglia.
Nel 1153 Anselmo de Quadraginta, signore feudale di Linguila, intervenne in Triora per far riscuotere da parte della popolazione locale le decime ecclesiastiche spettanti al vescovo di Albenga, alla cui diocesi il paese apparteneva. Impossibilitato però a riscuoterle personalmente, Anselmo inviò allora a Triora e in altri trenta paesi un energico esattore, che effettuò l'operazione di riscossione dei tributi. Il fatto non riveste particolare importanza dal punto di vista politico in quanto
Triora dipendeva allora politicamente da Ventimiglia, quanto piuttosto da quello religioso, che attesta inconfutabilmente la presenza di una parrocchia a Triora all'epoca della richiesta delle decime da parte della curia vescovile di Albenga. Quattro anni dopo, nel 1157, ma la notizia non è perfettamente sicura, Guido Guerra, conte di Ventimiglia, giurò fedeltà a Genova, a cui donò tutti i castra della contea, tra i quali anche Triora, ricevendoli contemporaneamente in feudo per investitura. Tra i successivi eventi notevoli che si verificarono a Triora in questo periodo ricordiamo la sentenza, pronunciata nel 1162 dal conte Gerbardo di Lussemburgo, legato dell'imperatore Federico Barbarossa, relativa alle controversie sorte tra Triora e Briga per motivi di pascolo nel territorio confinante tra i due paesi.
Il 15 ottobre dello stesso anno Triora fu invece teatro di un incontro, voluto dal conte Guido Guerra, a cui parteciparono il fratello di Guido Ottone IV e i rappresentanti dei comuni di Tenda e Briga, per addivenire ad un accordo tra le parti in merito all'eredità della signoria di Tenda e Briga, che era stata attribuita a Guido. Dopo diversi giorni di trattative si pervenne ad un concordato, che venne però duramente contestato dagli abitanti dei due paesi.
Intorno al 1190 Triora e il resto della Liguria occidentale passarono definitivamente sotto la sfera di influenza politica e economica della Repubblica di Genova. Nella seconda metà del XIII secolo, inoltre, contemporaneamente al progressivo esautoramento dell'autorità dei conti di Ventimiglia, che più volte non avevano rispettato i patti sanciti con le popolazioni sottomesse commettendo inutili soprusi, cominciò a farsi sentire anche tra i trioresi il desiderio di emanciparsi dal dominio ventimigliese proprio quando anche il sistema feudale stava dissolvendosi.
Sorsero allora delle associazioni di cittadini, dette Compagnie o Compagne, che si proponevano di incentivare l'esercizio del commercio e garantire la mutua collaborazione tra i cittadini del paese. I mercanti, eletti per svolgere le mansioni di giudici commerciali delle Compagnie, cominciarono quindi a farsi chiamare con il nome di consoli. Successivamente le Compagnie, per dare maggiore forza giuridica alla propria azione e per contrastare lo strapotere dei feudatari, si costituirono in comuni, come avvenne anche a Triora, che in questo periodo venne eretta a Comune (non ancora libero, ma propriamente feudo-comune), governato prima da consoli e poi da podestà, con il potere di emettere proprie leggi ed eleggere i magistrati locali. Molti abitanti dei dintorni si rifugiarono allora a Triora nella speranza di vivere al sicuro da eventuali attacchi nemici ponendosi sotto la protezione dei potenti signori del luogo.
In questo periodo andò formandosi stabilmente il primo centro dell'impianto urbanistico di Triora, il quartiere di San Dalmazzo, che era il punto più elevato dell'abitato ed era quasi inaccessibile da tre lati, con il suo forte, la chiesa e il palazzo pubblico. Le cinque o sei case costruite fuori della porta Peirana (o della Carriera Velli) formarono invece il primo nucleo del paese, il cosiddetto burgus, direttamente confinante con il castrum o castello. Come a Genova, anche a Triora la popolazione era divisa in due distinte fazioni, la nobiltà e la plebe, ciascuna occupante un quartiere dell'abitato: quello inferiore (Camurata e Sambughea) era destinato alla plebe, mentre quello superiore (Carriera e Cima o Rizettu) era abitato dalla ricca nobiltà.
Nel 1200 Triora acquistò da Gerardo Travacca (scritto anche nella grafia Tranucca) di Roccabruna, che lo aveva comprato a sua volta dal conte di Ventimiglia Guglielmo I, metà del paese (castrum) di Do o Dho (poi chiamato Castelfranco e oggi Castelvittorio). Il 18 marzo 1202 il comune di Triora stipulò, insieme ad altri venti paesi delle valli di Arroscia, Andora, Oneglia, Prelà, Rezzo e Nasino, un trattato di mutua amicizia con il podestà di Genova Goffredo Grasselli, che promise di prendere le difese dei paesi firmatari dell'accordo qualora questi avessero subito degli attacchi o delle molestie da parte della contea di Ventimiglia, mentre i rappresentanti dei comuni firmatari del trattato si impegnarono solennemente a difendere i cittadini genovesi offesi o attaccati nei loro possedimenti, a garantire la libera circolazione nei suddetti territori del grano, della biada e delle altre mercanzie dirette a Genova o da questa provenienti, a provvedere l'esercito genovese, in caso di guerra, di grano, biada e vettovaglie, e ad inviare nella chiesa di San Lorenzo a Genova, come segno di devozione e fedeltà, in occasione della festa di San Giovanni Battista, un grosso cero di venticinque libbre.
Due anni dopo, il podestà Grasselli, con ordinanza del 7 agosto 1204, intimò alle popolazioni delle valli di Arroscia, Andora e Oneglia di mantenersi in pace tra loro e di porre fine agli omicidi, incendi e distruzioni delle case seguite ad una guerra con il comune di Porto Maurizio, fissando a mille lire in moneta genovese la pena pecuniaria che avrebbe dovuto pagare un paese che contravvenisse a questi ordini, e a cento lire la sanzione imputabile a singoli cittadini di un comune di queste valli che avessero disobbedito all'ordinanza podestarile. In particolare, il podestà invitò gli uomini delle città delle valli Arroscia, di Andora e di Oneglia a fare guerra agli abitanti di Triora, a non vendere o comprare merce da loro e a impossessarsi delle cose appartenenti ai trioresi senza restituirle, e tutto questo fino a quando i trioresi non avessero soddisfatto congruentemente certi oneri imposti loro da Genova e non si fossero sottomessi completamente all'autorità e al dominio genovese.
Intorno al 1210 venne istituito a Triora un governo popolare, detto Parlamento generale, formato dai maiores terrae, e retto da sei consoli in rappresentanza delle principali famiglie magnatizie trioresi. Pochi anni prima, il 17 dicembre 1202, il marchese Ottone Del Carretto, nunzio dell'imperatore Federico II, aveva ordinato ai consoli di Triora, Pigna, Baiardo, Airole, Castello, Perinaldo e Rocchetta di non prestare aiuti o vettovaglie ai ventimigliesi, incorsi nel bando dell'impero, sotto la pena di cinquecento marche di argento e del bando imperiale. A causa dell'ostilità dell'imperatore e delle difficoltà ad amministrare possedimenti così diversi e lontani, i conti di Ventimiglia decisero allora di disfarsi dei comuni della costa e dell'entroterra che erano ancora sotto la loro giurisdizione.
Nel 1230 vendettero la villa di Gionco, presso Ventimiglia, e il vicino castello omonimo, mentre nel 1255 cedettero Dolceacqua e all'incirca nello stesso periodo anche Apricale, Isolabona e Perinaldo. Nel 1217 Triora stipulò una convenzione con Montalto e Badalucco, allora riunite in un'unica comunità, per addivenire ad un accordo tra le parti per lo sfruttamento del bosco di Tomena, e specialmente del cuneo detto dell'Agrifoglio. Il 13 gennaio di quell'anno convennero a Triora Ugo Baragna, Ugo Aldaria, Raimondo Picenoti e Arnaldo Celmaria in rappresentanza del comune di Triora, Bernardo Boeri e Raimondo Brizio di Badalucco e Ugo Tabaria e Ugo Ammirati di Montalto per stabilire di comune accordo l'utilizzazione da farsi del territorio detto Ubago dell'Agrifoglio, dove gli abitanti di Montalto tagliavano il fieno fino all'acqua del fiume.
Le parti pervennero al seguente accordo, che giurarono solennemente di rispettare per il futuro: la zona dell'Ubago fino al punto detto Cuneo Pietoso sarebbe rimasta in perpetuo di comune proprietà fra gli abitanti di Triora e quelli di Montalto e nessuna delle due parti avrebbe potuta concederla in pascolo ad altri o venderla. Gli uomini di Montalto avrebbero potuto inoltre portare a bere il loro bestiame nel fossato che segnava il confine, mentre la terra situata sopra il prato della Gola non avrebbe potuto essere ceduta da una parte all'altra. I dissidi tra trioresi e montaltesi sui diritti di pascolo nel bosco di Tomena non finirono peraltro con la firma di questo accordo tanto che, oltre un secolo dopo, nel 1339, i montaltesi furono accusati di pascolare abusivamente nella zona di Tomena e vennero conseguentemente condannati dal giudice di Triora.
Dopo essersi appellati contro questa sentenza al Senato di Genova, ottennero quindi l'assoluzione il 27 giugno 1341. L'8 gennaio 1238 fu invece firmata una transazione con il comune di Pigna, mentre, nel settembre del 1250, il comune di Triora strinse una convenzione di buon vicinato con Briga, che attesta tra l'altro che in quest'epoca Triora era in grado di amministrare liberamente le proprie finanze e i propri interessi economici e sociali.
La convenzione, stipulata il 1° settembre a Briga davanti alla casa di Giacomo Boeri dal sindaco di Triora Vincenzo Rustico e da quello di Briga Vincenzo Bosio, regolava sotto forma di un decalogo i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra gli abitanti di Triora e quelli di Briga, stabilendo delle multe ed altre sanzioni pecuniarie per chi violava determinate disposizioni relative ai confini tra i due comuni e all'utilizzazione dei pascoli e contro i colpevoli di ogni tipo di violenza, furto, offesa o danneggiamento a persone e cose.
In particolare, in caso di "assalto" di un cittadino ad un altro, la pena era di 100 soldi all'amministrazione giudiziaria e 100 alla persona danneggiata; in caso di percosse l'ammenda era di 10 lire alla giustizia e 10 al cittadino percosso; se qualcuno violava una proprietà privata la pena era di 20 lire, mentre il giudizio sui furti era delegato a due uomini appartenenti alla parentela dell'accusato, che era punito con il banno e un'ammenda pecuniaria corrispondente a 20 soldi; nel caso il colpevole non avesse potuto pagare il banno o l'ammenda, il suo comune di appartenenza avrebbe dovuto pagare per lui oppure marcargli un piede o una mano; se poi non lo avesse trovato per applicargli la sanzione, questo lo avrebbe dovuto esiliare in perpetuo fino a quando non avesse soddisfatto ai suoi obblighi giudiziari. La convenzione prevedeva inoltre il "divieto" ai due comuni firmatari di farsi guerra tra di loro o tra singoli cittadini appartenenti alle due comunità per nessun motivo.
Queste convenzioni testimoniano in modo particolare l'ampiezza del territorio utilizzato dai trioresi per i pascoli e il commercio, comprendenti anche zone di comuni limitrofi a quello di Triora. A questo periodo, intorno alla metà del secolo XIII, dovrebbe anche risalire la prima redazione degli Statuti comunali di Triora, che regolavano la vita civile e sociale della piccola comunità montana senza tuttavia pregiudicare i diritti spettanti al conte di Badalucco, che era ancora il proprietario formale del paese.
In seguito, constatata la volontà dei trioresi di non voler più dipendere dalla contea di Ventimiglia, ribadita dal trattato stipulato nel 1202 con Genova, il conte di Badalucco Bonifacio, figlio di Oberto, già conte di Ventimiglia, vendette all'avvocato Janella (scritto in altre grafie anche Gianello e Janello), suo cognato, rappresentante insieme al capitano Guglielmo Boccanegra la Repubblica di Genova, con atto stipulato a Genova davanti alla chiesa di San Lorenzo il 21 febbraio 1260, i castelli di Triora e di Do o Dho, e la metà dei castelli di Arma e Bussana, con i relativi domini, signorie, diritti comitali, giurisdizioni, introiti e proventi per la somma di 3000 lire genovesi.
La vendita di Triora a Genova non modificò tuttavia la dipendenza religiosa del paese dalla curia vescovile di Albenga. L'avvocato Janella non era però totalmente soddisfatto dell'acquisto di Triora forse perché, avendo prestato precedentemente del denaro al conte Oberto, riteneva che più che una vendita quella appena conclusa era semplicemente una presa di possesso di un bene già ipotecato. In ogni caso, qualunque fossero i suoi propositi, l'anno successivo, e precisamente il 4 marzo 1261, con atto siglato a Genova in casa di Opizone dei Fieschi e poi rogato l'8 novembre 1267 dal notaio Guglielmo di San Giorgio, l'avvocato Janella, assistito dall'avvocato Giacomo, vendette nuovamente al comune di Genova il castello di Triora e metà dei castelli di Do, Arma e Bussana per la somma di 2300 lire genovesi.
L'11 marzo successivo ad Arma l'avvocato Pietro e sua figlia Giulietta, moglie del conte Bonifacio, confermarono e ratificarono la vendita di Triora, Do, Arma e Bussana al comune di Genova. Lo stesso 11 marzo il rappresentante genovese Lanfranco Bulbonino incaricò cinque trioresi di intervenire per chiarire la confusa posizione fiscale dei nuovi sudditi della Repubblica di Genova. I cinque prescelti, Ugo Bonsignore, Guglielmo Rustico, Guglielmo Aiana, Raimondo Verrando e Guglielmo Scofferio, accertarono che ventuno famiglie erano esenti dal pagamento di metà delle decime da versare al comune, ma dovevano pagare quattro soldi ogni due anni e nulla l'anno successivo e quattordici denari ciascuna per due anni. Le immunità richieste dai cittadini dovevano tuttavia essere comprovate da adeguata e inoppugnabile documentazione.
I cinque eletti presentarono anche una lista di settantacinque capifamiglia, che dovevano due denari ogni due anni, mentre al terzo anno il contriburo richiesto loro era di quattordici denari. Metà della somma riscossa sarebbe andata a favore dei signori di Garessio, forse imparentati con i conti di Ventimiglia. Seguiva poi un gruppo di diciotto persone (ma la relazione ne cita solo diciassette), che erano obbligati a pagare, oltre ai due e ai quattordici denari come gli altri, anche una decima per i beni da loro posseduti oltre il fiume di Taggia (l'Argentina). Di tale decima un quarto sarebbe stato attribuito alla chiesa di San Dalmazzo di Triora, la metà del rimanente al comune di Genova, mentre dell'ultima metà non è specificata la destinazione.
L'11 marzo 1261 a Triora, alla presenza dell'ambasciatore genovese e legato del capitano Guglielmo Boccanegra Lanfranco Bulbonino, i consoli e i capifamiglia del paese dell'alta valle Argentina giurarono solennemente fedeltà alla Repubblica di Genova. I sei consoli, che allora reggevano le sorti del comune di Triora e che giurarono fedeltà a Genova, erano Anselmo Morando, Ricolfo Donzella, Oberto Borrelli, Daniele Agagia, Sasso Beneadorno e Oberto Prete, mentre i capifamiglia trioresi, rappresentanti l'intera popolazione del borgo alpestre, anche se probabilmente non giurarono proprio tutti, ammontavano a 369, pari a circa 1600-1700 persone, che si presume dimorassero allora a Triora. Dopo averne ratificato l'annessione, Genova eresse Triora a capo di giurisdizione, in qualità di nona podesteria della Repubblica, ponendo al vertice del comune un podestà, nominato direttamente dal governo genovese, che aveva il compito di sorvegliare l'operato degli amministratori locali e di tutelare i diritti e gli interessi del comune di Genova. Il podestà aveva inoltre pieni poteri politici e militari, l'autorità per amministrare la giustizia e anche la facoltà di condannare alla pena di morte.
Per tali funzioni giudiziarie il podestà veniva anche definito pretor. L'unica limitazione alla sua autorità era quella di sottostare alle norme degli Statuti comunali, che egli non poteva in alcun caso modificare. La podesteria di Triora comprendeva anche i paesi di Molini, Corte e Andagna (frazioni del capoluogo), Baiardo, Do, Montalto, Badalucco, e per qualche tempo anche Ceriana.
Nel 1271 Triora stipulò un'altra convenzione di buon vicinato con il comune di Rezzo. L'atto, redatto il 27 giugno sopra il ponte de Toriis, presso il castrum di Triora, dal sindaco di Triora Enrico Borreli e dal sindaco di Rezzo Tommaso Vivaldi, addiveniva ad una reciproca intesa tra le due parti sulle delimitazioni delle aree destinate al pascolo, stabilendo delle pene e sanzioni pecuniarie contro coloro che violassero le norme sui confini dei territori e sulla pastorizia commettendo in particolare furti di bestiame e di biada.
Nel dettaglio era prevista la pena di 100 soldi nel caso di "assalto" di un cittadino ad un altro e di 10 lire per le percosse; chiunque avesse arrecato danni in proprietà altrui era punito con il banno e un'ammenda; in caso di furto, l'accusato, come era stato stabilito anche nella convenzione con Briga, doveva essere giudicato da due suoi parenti, e, se questi non lo avessero voluto giudicare, doveva essere condannato al banno e al pagamento di un'ammenda; per chi avesse rubato della biada la pena era invece di 20 soldi, mentre i pastori che fossero stati trovati a pascolare sui territori dei due comuni percore "in cattivo modo" sarebbero stati trattenuti con il bestiame per tre giorni; in caso di liti era prevista la possibilità per i contendenti di nominare un procuratore per la tutela dei loro legittimi interessi; era infine stabilito che i pascoli e l'erbaggio dei due paesi potevano essere banditi scambievolmente tra le due comunità.
Nel 1280, con un'apposita convenzione firmata il 13 luglio nei pressi di carmo Langan dal podestà triorese Federico Vezzano e dal sindaco di Do Guglielmo Tarenca, Triora dichiarò libero da quasi tutte le servitù che esso doveva pagare al comune triorese il paese di Do o Castel Do, che assunse allora il nome di Castelfranco, cioè castello libero, affrancato, e che prese poi il nome attuale di Castelvittorio quasi sei secoli dopo, nel 1862. In tale convenzione erano inoltre delineati i confini dei pascoli alpestri tra i due paesi, indicando i luoghi dove era consentito o vietato pascolare su un territorio comune, falciare il fieno, tagliare la legna, seminare e pratica la caccia nel territorio di Castelfranco tramite l'utilizzazione degli antichi toponimi: dal passo di Ranaro alla colla di Foi, dal vallone delle Morghe al colle Bòzaro, dal monte Gordale alla costa del Corroselo, dalla pineta di Germanzano alla colla di Parà ecc.
Furono anche stipulati precisi accordi per il pascolo nelle alpi di Cignarea e la coltivazione dei terreni situati in Tenarda e in Langan e per la reciproca tutela di persone e cose attraverso la solita elencazione delle sanzioni pecuniarie a cui andavano incontro coloro che si fossero resi responsabili di furti, danneggiamenti o sconfinamenti di bestiame. Delimitazioni del territorio dei pascoli riguardarono invece un accordo siglato da Triora con Baiardo nel 1282, anche questa volta per la zona di Tomena e di Ceppo. L'anno successivo Triora raggiunse un'intesa con il comune di Carpasio sempre per la questione dei pascoli.
La convenzione, stipulata il 4 gennaio 1283 a Montalto nella proprietà di Rosso Ammirato dal sindaco di Triora Raimondo Calotta e da quelli di Carpasio Bonino e Guglielmo Giordano, prevedeva ingenti multe, stimabili a cura dei campari e rasperi del comune di Triora, ai ladri di bestiame e ai pastori che lasciassero entrare bestie minute e grosse di un comune nel territorio dell'altro e stabiliva una speciale procedura penale per coloro che si fossero resi responsabili di furto o risse tra cittadini delle due comunità o fossero stati messi al bando o espulsi dal proprio paese, simile a quelle già precedentemente stabilite in convenzioni con altri paesi, e che prevedeva l'intervento del comune di appartenenza del condannato per far rispettare le sanzioni a suo carico.
Nel 1284, in ottemperanza alle clausole di collaborazione militare con la Repubblica genovese, Triora inviò 200 balestrieri alla battaglia della Meloria, nel corso della quale la flotta genovese distrusse quella pisana. Cinque anni dopo, nel 1290, Triora mandò altri 50 balestrieri per affiancare le truppe genovesi impegnate in uno sbarco in Sardegna nel corso della guerra contro Pisa. Il numero di balestrieri inviati da Triora fu particolarmente alto se si considera che eguagliava quelli mandati da città ben più grandi e popolose come Ventimiglia e Porto Maurizio ed era di poco inferiore ai 60 inviati da Sanremo, mentre sopravanzava nettamente i 25 di Taggia e i 3 di Mentone e Perinaldo. A Triora, come nel resto della Liguria, era particolarmente diffuso l'addestramento di giovani al tiro con la balestra, tanto che i Liguri erano famosi per l'abilità nel maneggiare la balestra. Ancora nel 1403 il comune di Triora risultava armato con quattro balestre.
Intorno al 1295, a causa di attriti insorti tra i due paesi per questioni di sconfinamenti di pastori e bestiame, si ebbe un'aspra contesa fra Triora e Tenda, nel corso della quale un certo Pietro Balbo di Tenda distrusse vigne e castagneti appartenenti al comune di Triora, trucidò migliaia di capi di bestiame e centinaia di militi trioresi. Da tale contesa derivò un forte indebolimento del traffico commerciale tra i due borghi alpestri, che si sarebbe definitivamente ripreso soltanto più di un secolo dopo con la stipulazione di un patto di buon vicinato tra di due comuni, che permise il ripristino degli scambi commerciali e del pascolo indisturbato del bestiame nelle rispettive zone confinarie. Altre controversie sorsero invece con il comune di Briga per via delle gabelle imposte da Triora alle merci brigasche dirette alla fiera di San Lorenzo e di Santa Croce attraverso l'unica strada percorribile: la Tenda-Briga-Triora-Taggia.
Nel 1310 Triora, retta da un'amministrazione ghibellina, si trovò ad affrontare un conflitto armato con i comuni guelfi di Cosio e Pornassio, che dipendevano dai Savoia. Intorno al 1325 Triora, che, al pari di Genova, era sempre ghibellina, assaltò, coadiuvata dalle truppe del signore di Dolceacqua Imperiale Doria, il vicino paese guelfo di Buggio. Sul fronte invece delle riscossioni ecclesiastiche, il 30 maggio 1330 il vescovo di Albenga Federico I investì i conti di Laigueglia, i fratelli Giacomino e Bonifacio, della facoltà di riscuotere le decime ecclesiastiche nel comune di Triora e di altri tre comuni limitrofi. L'investitura venne quindi rinnovata il 23 febbraio 1345 al conte Manfredo Ventimiglia dal vescovo Federico II, e successivamente nel 1349 e nel 1364.
Nel 1331 venne firmata una tregua delle operazioni militari tra i ghibellini di Triora, Taggia, Arma e Bussana e i guelfi dei paesi della val Nervia. Quindici anni dopo, il 3 gennaio 1346, Triora accettò un compromesso con Castelfranco e Pigna, concluso dal podestà triorese Francesco da Firenze, relativo al territorio boschivo e prativo del monte Tanarda, ubicato sul confine dei tre comuni. In seguito però, Pigna, alleatasi con il vicino paese di Buggio, avvalendosi anche dei diritti che le spettavano in virtù della transazione ottenuta con la mediazione del podestà di Triora, scatenò intorno al 1350 un violento conflitto armato con Castelfranco per assicurarsi il possesso della zona di Tanarda che si prolungò per diversi anni con alterne vicende.
Tra il 1347 e il 1350 Triora, come il resto d'Italia e di gran parte d'Europa, venne duramente colpita dal flagello della peste nera, che sterminò un terzo della popolazione del paese. La pestilenza imperversò soprattutto nel corso del 1348, quando alcuni abitanti trioresi, per trovare scampo dal terribile morbo, si rifugiarono in un luogo vicino, dove, non lontano dall'abitato di Molini, fondarono il primo nucleo del paese di Glori. Nello stesso periodo, nell'ambito dei patti di buon vicinato con i paesi vicini, Triora stipulò una convenzione con il comune di Saorgio. L'accordo, che venne siglato il 5 agosto 1349 dal sindaco di Triora Giovanni Gastaldi e da quello di Saorgio Pietro Cina, al solito in una località intermedia tra i due comuni, e precisamente "in Marta", sul confine tra i due paesi, prevedeva una mutua collaborazione fra trioresi e saorgini per una maggior sicurezza delle persone e del bestiame circolanti nei territori confinanti, specialmente nel caso di furti o calamità naturali come temporali e frane.
La convenzione prevedeva anche delle clausole che riguardavano un antico dissidio tra Triora e Pigna stabilendo che nessun abitante di Saorgio avrebbe dovuto dare asilo a bestie degli uomini di Pigna che si trovassero a pascolare nel territorio comunale triorese, e che gli abitanti dei due paesi si ripromettevano di risarcirsi a vicenda i danni provocati direttamente e indirettamente dal conflitto che aveva contrapposto Triora a Pigna. Intorno al 1350, militi di Triora, aggregatisi agli uomini di Ventimiglia e di Imperiale Doria, parteciparono al saccheggio di Rocchetta Nervina e di Sospello, paesi che appartenevano ai conti di Provenza.
Tra il 1350 e il 1351 si ebbe una lunga e complessa lite tra gli abitanti di Triora e quelli di Pigna, Buggio e Castelfranco per lo sfruttamento dei pascoli e delle acque di Tenarda, di cui è forse indice una sentenza emessa il 5 aprile 1351 nel territorio di Castelfranco presso la chiesa di Santa Maria di Migaleto, che dirimava una controversia sorta fra Triora, Castelfranco e Pigna in merito ad un presunto sconfinamento di pastori.
Nel 1356, prima ancora che Genova si ribellasse all'amministrazione dei Visconti di Milano, la popolazione triorese si sollevò cacciando dal paese il rappresentante visconteo inviato dall'imperatore Carlo IV e accusato di aver retto malamente il paese. Il 28 gennaio 1367 il vescovo Giovanni Fieschi di Albenga investì cinque membri dei conti di Ventimiglia delle decime che percepiva nel territorio comunale di Triora. Qualche anno dopo, nel 1379, Triora stipulò un altro trattato di buon vicinato con il paese di Castelfranco, siglato il 20 giugno dal sindaco di Triora Francesco Sardo e dai sindaci di Castelfranco Pietro Rebaudo e Giovanni Peverello, soprattutto per trovare di comune accordo una soluzione per i pascoli di Langan, che erano oggetto di scontri quotidiani per ottenerne il possesso.
Un tratto di questo territorio era infatti di proprietà comune ed erano sorte divergenze in merito alla stima di eventuali danni e all'applicazione delle sanzioni pecuniarie che variavano in base alla cittadinanza del camparo (guardia campestre) e del colpevole. La comproprietà prevedeva infatti la sorveglianza e l'intervento delle autorità dei due paesi, ma evidentemente sussistevano delle disparità di trattamento tra campari e pastori appartenenti a un paese piuttosto che a un altro. Fu quindi deciso di stabilire delle precise norme che garantissero l'equità dei giudizi e vennero approvate anche delle disposizioni che fissavano l'ammontare delle sanzioni pecuniarie per eventuali danni causati dal bestiame. La convenzione venne firmata proprio nella località di Langan.
Nel 1383 si verificò una rivolta degli abitanti di Triora contro Genova a causa dell'eccessiva pressione fiscale che la Repubblica aveva imposto al piccolo borgo ligure. In questo periodo proprio per motivi fiscali sorse un dissidio tra il comune di Triora e quelli di Montalto e Badalucco. La contesa derivava dalla suddivisione tra i comuni della podesteria della tassa detta dell'avaria, il cui importo complessivo doveva essere appunto egualmente ripartito in quote tra i comuni della podesteria. Il problema consisteva nel fatto che se un comune chiedeva una riduzione della sua quota, inevitabilmente aumentava l'importo di quelle che dovevano versare gli altri comuni.
Nel 1388 il sindaco di Montalto e Badalucco Giacomo Ammirato presentò al doge di Genova una supplica a nome dei suoi abitanti in cui si lamentava del fatto che i due comuni che egli rappresentava erano a suo modo di vedere trattati mali da quello di Triora nella divisione della tassa dell'avaria da pagare a Genova. Il doge e il Consiglio degli Anziani risposero però in modo giudicato non soddisfacente dagli abitanti di Montalto e Badalucco, che si incollerirono ulteriormente quando seppero che due rappresentanti del comune di Triora, Pietro Stella e Antonio Capponi, si erano recati a Genova per sostenere il punto di vista di Triora sulla questione in discussione.
Il doge investì allora del problema il vicario della Riviera occidentale che confermò la precedente suddivisione delle quote: di 5 denari di tassa il comune di Triora doveva pagarne 3, mentre gli altri 2 dovevano essere ugualmente ripartiti tra i comuni di Baiardo, Castelfranco, Badalucco e Montalto. Questa ripartizione venne accetta da Baiardo e Castelfranco, ma non da Montalto e Badalucco, che continuarono a protestare contro la quota assegnata loro giudicata non proporzionata al numero degli abitanti e all'estensione del territorio. Dopo aver verificato la consistenza della popolazione, il vicario sentenziò che le comunità di Badalucco e Montalto erano trattate in modo equo e confermò quindi la suddivisione della tassa già stabilita. Gli abitanti di Montalto e Badalucco continuarono però a protestare vivacemente sostenendo che c'era una grande differenza di censo tra le popolazioni dei diversi comuni della podesteria di Triora.
Al 1391 risale invece una nuova convenzione con il comune di Pigna, siglata il 29 marzo di quell'anno dal sindaco triorese Angelino Oddo e da quello pignese Pietro Allavena, che prevedeva precise norme giurisprudenziali e di procedura civile per la soluzione di liti, cavilli e frodi che spesso insorgevano tra abitanti dei due paesi per atti di compravendita, prestiti, alienazioni, concessioni e obbligazioni soprattutto di territori destinati al pascolo, per il cui danneggiamento da parte di pastori di entrambi i paesi erano previste speciali sanzioni pecuniarie. In particolare, si stabiliva che la giurisdizione per qualsiasi atto di vendita, obbligazione, alienazione o concessione era di esclusiva competenza del tribunale di appartenenza del reo; si fissava in otto giorni il termine massimo di tempo entro cui il reo debitore o confessante avrebbe dovuto pagare l'ammenda; era inoltre sancito il diritto per i pastori che sconfinassero con il loro bestiame nel territorio di uno dei comuni di essere giudicati allo stesso modo con cui sarebbero stati giudicati nel comune di loro appartenenza; si stabiliva infine che nessuno poteva essere perseguito in base ad accuse vaghe e incerte, ma che dovevano essere prodotte delle prove certe e inconfutabili.
Qualche anno più tardi, nel 1399, nell'ambito dei rapporti tributari con Genova, Triora versò la somma di 3940 lire genovesi per pagare la tassa detta dell'avarìa (per i danni subiti dalle navi genovesi nelle recenti battaglie). L'ammontare della tassa, superiore a quella pagata da Ventimiglia e quasi pari a quella versata da Porto Maurizio, attesta ancora una volta la particolare prosperità della situazione economica di Triora, che allora era senz'altro superiore a quella di numerose città della Riviera. Tra il 1404 e il 1405 San Vincenzo Ferreri predicò a Triora, dove fondò la confraternita dei Flagellanti di San Giovanni Battista, ancora oggi detta dei Battùti, che però, secondo altre testimonianze, sarebbe stata invece istituita da San Bernardino da Siena.
Nel 1405, sempre a causa dell'eccessiva tassazione a cui era sottoposta da parte della Repubblica genovese, Triora, guidata dal podestà Levrotto, si ribellò nuovamente a Genova, prendendo in ostaggio il governatore genovese e distruggendo le cinque fortezze del paese: San Dalmazzo, che era la più antica, e quelle del Castello, della Colombèira o del Poggio, del Fortino e della Sella o di San Bernardino. Di tale fortezze ne rimangono ancora i ruderi, ad eccezione di quella di San Dalmazzo, conservatisi sino alla fine del Seicento.
Nel 1411 venne stipulato un'altra convenzione di buon vicinato con il comune di Tenda. L'atto, rogato in Saorgio in casa di Antonio Giordano il 30 giugno, da Filippo Stella luogotenente del podestà di Triora insieme ai sindaci trioresi da una parte e dai rappresentanti degli abitanti di Tenda dall'altra, fissava i tempi e i luoghi per il passaggio e la permanenza delle mandrie nei rispettivi paesi: i pastori di Tenda avrebbero potuto trattenersi per otto giorni nel territorio di Triora, Molini, Corte e Andagna quando dovevano passarvi per dirigersi verso altre terre, e quelli di Triora avrebbero potuto fare altrettanto nel territorio di Tenda senza pagare dazi o gabelle. Notevole interesse riveste inoltre la clausola che stabiliva che in tempo di guerra gli abitanti di un paese, con i loro capi di bestiame, potevano trasferirsi nel territorio dell'altro e lì rimanere e pascolare liberamente e impunemente per la durata di un mese; oltre questo termine avrebbero dovuto pagare i diritti di pascolo nella misura dei residenti.
Nel 1418 si svolse a Triora la predicazione di San Bernardino da Siena, che si trovava allora ad Albenga per una missione di prediche. Pochi anni dopo, nel 1429, Triora venne nuovamente tassata da Genova per la somma di 400 lire genovesi per il tributo dell'avarìa, che si era reso necessario a causa delle notevoli spese incontrate da Genova nel recupero del borgo di Monaco, che era stato riconquistato ed era ritornato ai Grimaldi. Anche in questo caso Triora pagò più di Ventimiglia, che versò 100 lire, di Sanremo, 200 lire, e poco meno di Porto Maurizio, che dovette pagare 500 lire. Il 13 febbraio 1433 avvenne la dismembrazione, cioè la divisione, delle prebende canonicali fra i beneficiati (parroco e due canonici) della chiesa della Collegiata, fondata nel secolo XII.
Del 1435 è invece un nuovo trattato con Briga, che venne stipulato per evitare il ripetersi di liti e contese sorte da questioni di pascoli alpini tra le due comunità. Il trattato, firmato il 28 giugno dal sindaco triorese Francesco Prevosto e da quello di Briga Pietro Rantrua, stabiliva i precisi confini territoriali dei due paesi, individuandoli in un cuneo di territorio brigasco che entrava in quello di Triora, corrispondente all'estrema punta della valle Argentina e compreso tra i monti Saccarello e Collardente e le frazioni di Verdeggia e Realdo, e che, dopo la seconda guerra mondiale, con la cessione di Briga (La Brigue) alla Francia, è ritornato a far parte del comune di Triora. Venivano inoltre fissate delle norme per il pascolo, tra cui quella che garantiva l'immunità fiscale dei pastori trioresi in territorio brigasco e di quelli brigaschi in territorio triorese.
Sei anni più tardi, nel 1441, Triora stipulò invece un accordo con Taggia, che venne sottoscritto il 23 giugno dal sindaco triorese Antonio Verrando e da quello taggese Francesco Boeri nel carrugio pubblico di Badalucco e che stabiliva delle sanzioni per gli abitanti di un paese che avessero arrecato danno od offesa a persone o cose dell'altro e risolveva pacificamente delle controversie sorte tra i due comuni in merito ad accuse di furti e danni riguardanti il bestiame. In dettaglio, si stabiliva che se qualche cittadino di Triora avesse arrecato danno od offesa ad uno di Taggia e viceversa, questo sarebbe stato giudicato dal foro del reo; nel caso invece un pastore avesse pascolato del bestiame in territorio altrui senza licenza, questo avrebbe dovuto pagare un banno di sette soldi, che aumentava a 15 soldi se le sue bestie avessero arrecato dei danni a prati e poderi; se qualche cittadino avesse danneggiato vigneti, fichi o alberi da frutta, esso avrebbe dovuto risarcire il danneggiato dei danni da lui provocati in base ad un ammontare stabilito da un collegio di periti, mentre per chi fosse stato sorpreso a tagliare degli alberi, la pena era invece di un banno da 40 soldi.
La convenzione stabilì infine che tutte le liti e pendenze giudiziarie tra cittadini dei due paesi non ancora risolte al momento della firma dell'accordo, sarebbero cadute in prescrizione e come tali considerate nulle come se non fossero mai accadute. Qualche anno dopo, il 28 ottobre 1452, i sindaci di Badalucco e Montalto Pietro Ammirato e Giorgio Rossi e quello di Triora Giovanni Morardo raggiunsero un nuovo accordo per la soluzione pacifica dei problemi derivanti dall'utilizzo e sfruttamento del bosco di Tomena, che nei secoli precedenti era stato oggetto di aspre contese tra gli abitanti dei tre paesi.
Nell'accordo, siglato a Triora davanti alla porta di San Giovanni della Valle, veniva confermata la sentenza del 13 gennaio 1217, con cui era stato raggiunto un primo compromesso tra le parti sull'uso da farsi del bosco, si prevedeva una multa di 25 lire per chi avesse contravvenuto al patto appena concluso e si stabiliva la remissione reciproca dei danni ricevuti in passato. Successivi accordi si resero necessari nel 1542 e nei secoli seguenti, senza tuttavia pervenire ad una soluzione definitiva del problema, fino a quando il commissario generale di Sanremo stabilì nel 1757 che la parte del bosco di Tomena detta Cuneo dell'Agrifoglio sarebbe spettata per sempre alle comunità di Montalto e Badalucco, escludendo quindi i diritti di proprietà rivendicati sul bosco dal comune di Triora. Il contenzioso venne comunque definitivamente superato solo nel 1821 quando il governo sabaudo dichiarò il bosco di Tomena proprietà demaniale.
Nel 1459 una terribile pestilenza avrebbe distrutto metà degli abitanti di Triora, ma la notizia non è storicamente certissima. Nello stesso anno, nell'ambito dei contrasti plurisecolari tra Triora e i comuni dipendenti di Badalucco e Montalto, che chiedevano maggiore autonomia fiscale e amministrativa dal capoluogo podestarile, i sindaci di Badalucco e Montalto presentarono una supplica al governo genovese e al Consiglio degli Anziani, nella quale, dopo aver fatto presente che in virtù dei loro Statuti essi avevano la facoltà di eleggere i propri consoli, gli anziani, lo scriba della curia e gli altri ufficiali comunali e dovevano inoltre ricorrere al podestà di Triora per l'appello alle sentenze e corrispondergli 24 lire di salario per le avarie come gli abitanti trioresi, chiesero di potersi separare da Triora per tutta una serie di motivi, che elencarono dettagliatamente.
In particolare, i motivi di dissidio erano così motivati: se un cittadino di Montaldo o Badalucco fosse stato debitore di uno di Triora, egli era subito citato a comparire a Triora dove era immediatamente arrestato e tenuto in carcere finché non avesse pagato, mentre se il debitore era uno di Triora, nessuno poneva un termine al versamento del dovuto; se qualcuno di Triora avesse arrecato danni di qualsiasi genere nei comuni di Badalucco e Montalto, questo, data la lontananza, era difficilmente rintracciabile e quindi spesso non punito, mentre se qualcuno di Badalucco o Montalto metteva piede nel territorio triorese era subito visto e accusato dai campari; i sindaci di Triora decidevano e agivano senza neanche avvertire i rappresentanti di Badalucco e Montalto, che erano poi costretti a pagare quanto era stato deciso; il Parlamento triorese aveva inoltre deliberato di tagliare molti castagni in territorio comune senza concedere ai badalucchesi e montaltesi di fare altrettanto. Per tutte queste motivazioni, i sindaci di Badalucco e Montalto chiesero al governo di Genova di staccare i loro paesi dalla podesteria di Triora in modo che non restasse più nulla in comune tra loro e il comune di Triora.
Il 7 novembre 1459 il regio governatore di Genova e il Consiglio degli Anziani esaminarono la documentazione prodotta dalle due parti, leggendo in particolare le dichiarazioni di Luca Rosso e Giovanni Bianco, sindaci e procuratori di Badalucco e Montalto, e quelle di Antonio Borelli, sindaco di Triora, incaricando nel contempo il podestà di Taggia di raccogliere nuove testimonianze, che furono poi mandate a Genova in un plico sigillato. Esaminati tutti i documenti, i governanti genovesi respinsero la richiesta di separare i comuni di Badalucco e Montalto dalla podesteria di Triora, in quanto, a loro giudizio, non era conveniente separare le membra dal capo.
Stabilirono però anche che Badalucco e Montalto potevano mantenere in vigore i loro Statuti, che dovevano essere rispettati dalle autorità di Triora, che i consoli di Badalucco e Montalto potevano giudicare secondo i loro Statuti, che se uomini di Triora avessero arrecato danni nei boschi di Badalucco e Montalto, dovevano essere credute le tesimonianze rese con giuramento dai campari e dagli estimatori badalucchesi e montaltesi, che gli abitanti di Triora potevano obbligare quelli di Badalucco e Montalto a spese, doni e missioni solo per cause che avessero interessato anche loro, e che infine, se si fossero verificati dei ritardi nel pagamento delle avarie al comune di Genova per colpa dei trioresi, gli eventuali aggravi sarebbero stati a carico degli abitanti di Triora; era inoltre stabilito che nelle cause civili i trioresi non potevano far incarcerare dal loro podestà gli abitanti di Badalucco e Montalto se non nei casi espressamente previsti dalla legge, che ogni volta che abitanti di Montalto o Badalucco dovevano presentarsi al podestà di Triora, questi avevano tre giorni di tempo per farlo, e non potevano essere arrestati prima della scadenza dei tre giorni, e infine che i trioresi avrebbero dovuto trattare gli abitanti di Badalucco e Montalto "benigne ac debite", cioè benignamente e con il dovuto rispetto. Dopo che il giusperito Francesco de Cocerino ebbe esaminato tali decisioni del Consiglio degli Anziani, ne inviò una dettagliata relazione al regio governatore e al Consiglio degli Anziani di Genova, che, il 3 aprile 1460, ratificarono tutte le decisioni assunte e comandarono che fossero osservate.
Anche dopo la ratifica dell'arbitrato emanato dal governo genovese, continuarono a sussistere tra Triora da una parte e Badalucco e Montalto dall'altra contrasti e dissidi che derivavano dall'interpretazione delle norme pattuite, con particolare riferimento alla questione che se per debito pecuniario gli abitanti di Badalucco e Montalto potevano essere arrestati e condotti nelle carceri di Triora. Su quest'ultimo punto si arrivò infine ad un accordo, raggiunto il 3 febbraio 1472 a Triora in casa del podestà triorese Francesco dei marchesi di Ponzone e rogato dal notaio Pietro Ammirato, da parte dei notai Giacomo Gastaudo e Lorenzo Capponi e dell'ufficiale comunale Marco Borelli in rappresentanza di Triora e dei notai Giacomo Bestagno e Giovanni Brizio per Badalucco e Montalto, che stabilirono le modalità per limitare i casi dell'eventuale custodia di badalucchesi e montaltesi nelle carceri trioresi, che doveva essere attuata nelle stesse condizioni di quelle riservate agli abitanti di Triora.
Quasi quindici anni dopo, nel 1486, avvenne il distacco della chiesa del paese di Molini dalla parrocchia madre di Triora. Del 1497 è invece un'altra convenzione di buon vicinato con Taggia, di cui però non è stato conservato il relativo atto. Il 19 maggio 1498 venne firmato un altro trattato con Briga, andato anch'esso smarrito. Al termine del Medioevo si può concludere che Triora si trovasse in uno stato di notevole prosperità economica, mentre, politicamente e amministrativamente, rimaneva una fedele podesteria della Repubblica di Genova.
DALLA PRIMA ETA' MODERNA AL 1815Nel 1498, in concomitanza con la discesa in Italia delle truppe francesi guidate da Carlo VIII, Triora venne saccheggiata e incendiata dal duca Serranono, che faceva parte del seguito del re di Francia. Nello stesso anno, per risarcire gli ingenti danni subiti dal paese, venne istituita una Universitas crematorum hominum Trioriae, che aveva appunto il compito di aiutare finanziariamente le persone che avevano subito i maggiori danni a cose e abitazioni.
Tre anni dopo, il 25 marzo 1501, Triora concluse un altro trattato di amicizia e buon vicinato con Saorgio. Nel 1512, in occasione della nomina di Antoniotto Adorno a doge di Genova in sostituzione di Ottaviano Fregoso, i pittori Giovanni Battista Braida di Genova e Angelo Chierico o del Chierico di Messina, come era uso ad ogni cambiamento del governo genovese, dipinsero la bandiera di Genova e lo stemma del nuovo doge sulla facciata del palazzo comunale triorese.
Al 1519 risale invece una terza convenzione con il comune di Castelfranco, di cui però non è stata conservata la relativa documentazione. Come era già avvenuto nel 1512, essendo succeduto un nuovo doge a Genova, i pittori Pietro Caminata di Genova e Raffaele Fassòlo dipinsero nel 1522 le insegne genovesi (bandiera e stemma del nuovo doge) sulla facciata del palazzo del comune. Nel 1531 Genova istituì a Triora una scuola pubblica, assegnando al relativo maìsto (maestro) lo stipendio annuo di 200 lire.
Nello stesso anno si svolse un censimento generale della popolazione residente a Triora, da cui risultava che il paese di Triora era abitato da una popolazione stimabile in 500 fuochi, corrispondenti a circa 2500 abitanti, mentre gli abitanti dell'intero territorio comunale erano stimati in 680 fuochi, ossia 3400 abitanti. Il fuoco corrispondeva all'incirca a un nucleo di 5 persone.
Nel 1556 la parrocchia di Triora venne definitivamente trasferita nella chiesa della Collegiata, abbandonando la chiesa madre dei Santi Pietro e Marziano, che era stata edificata al di fuori dell'abitato. L'anno successivo, il 1557, registra la visita a Triora di Giovanni Lovera, inviato dal duca di Savoia da Cuneo a Bruxelles. Lovera aveva percorso la mulattiera che da Tenda portava a Taggia, facendo così tappa a Triora. Da Taggia proseguì quindi per Genova e Milano giungendo infine in Belgio dove venne ucciso l'anno dopo. Le più significative impressioni della sua sosta a Triora sono state descritte da Lovera nel suo diario di viaggio.
Il 20 luglio 1564 un forte terremoto devastò il Ponente ligure e il Nizzardo; a Triora si ebbero numerose case rovinate dal sisma. Nel 1573 venne stipulata una terza convenzione, dopo quelle del 1441 e del 1497, con il comune di Taggia, di cui non è però rimasta traccia documentaria. Due anni dopo, nel 1575, la castellana del marchesato di Maro (oggi Borgomaro) signora d'Urfè, chiese a Genova, nell'ambito della contesa dinastica che contrapponeva il marchesato di Maro al marchese e ammiraglio de Villars, di ordinare ai suoi ufficiali che erano di stanza a Triora di non concedere passaggio, favori, aiuti, vettovaglie e munizioni ai soldati del marchese de Villars. Nel 1579 Bernardino Alberti, notaio e fine scrittore di versi in latino e italiano, dotò Triora di una nuova scuola pubblica, che si affiancò o forse sostituì del tutto quella fondata da Genova nel 1531.
Verso la fine dell'estate del 1587, durante una carestia che aveva duramente provato la popolazione triorese e che durava da oltre due anni, gli abitanti di Triora, particolarmente stremati, iniziarono a sospettare che a provocare la carestia che stava flagellando le campagne del paese sarebbero state delle streghe locali, dimoranti nel quartiere detto della Cabotina. Dopo essere state individuate, le streghe trioresi vennero subito additate alla giustizia. Il Parlamento generale, dopo essersi riunito, affidò al podestà del paese Stefano Carrega l'incarico di fare in modo che le streghe venissero sottoposte ad un regolare processo e stabilì anche la somma di denaro occorrente per lo svolgimento del processo.
Carrega chiamò allora il sacerdote Girolamo Del Pozzo, in qualità di vicario del vescovo di Albenga, dalla cui curia dipendeva Triora, e un vicario dell'Inquisitore di Genova. I due vicari, giunti a Triora ai primi di ottobre, iniziarono quindi il processo dopo che Del Pozzo, con una infuocata predica nella chiesa della Collegiata, aveva denunciato le diaboliche "malefatte" operate dalle streghe a Triora eccitando in tal modo la collera del popolo triorese verso di loro.
I due vicari fecero allora arrestare una ventina di streghe, che vennero subito rinchiuse in alcune case private adattate a carcere delle streghe, dichiarandone subito colpevoli tredici, più quattro ragazze e un fanciullo. Dal momentò però che tali streghe, forse per estorcere loro la confessione delle loro "malefatte", venivano sottoposte ad atroci torture, ed avevano denunciato diverse "complici", tra cui non poche appartenenti alla nobiltà locale, la popolazione triorese iniziò ad intimorirsi e a nutrire dei dubbi sulla corretta condotta dei due vicari tanto da indurre il Consiglio degli Anziani, un organismo che rappresentava le famiglie più altolocate e benestanti di Triora, a intervenire presso il governo di Genova affinché questo facesse interrompere un processo che non dava più alcuna garanzia, soprattutto in merito all'incolumità fisica delle streghe, tra le quali una, Isotta Stella, era morta in seguito alle torture subite, e un'altra era deceduta per le ferite riportate nel gettarsi da una finestra per sfuggire ai suoi aguzzini.
Il 13 gennaio 1588, con una lunga lettera inviata al governo genovese, gli Anziani di Triora espressero le loro lamentele in merito alla condotta dei due vicari, giudicata eccessivamente severa nel valutare la colpevolezza delle streghe, che erano state arrestate solo in forza di indizi molto dubbi o perché denunciate da altre donne sottoposte ad indicibili tormenti ed erano costrette a rimanere in carcere nonostante non avessero confessato alcun crimine. Gli Anziani rimproverarono inoltre ai due vicari il fatto di tenere ancora in prigione donne che, per quanto tormentate, non avevano confessato niente e di non riconoscere innocenti delle deboli donne che avevano confessato e ritrattato in mezzo ad atroci tormenti.
Il doge e i governatori genovesi, dopo aver ricevuto la lettera degli Anziani di Triora, scrissero il 16 gennaio una lettera al vescovo di Albenga Luca Fieschi, facendogli presente le proteste che aveva causato il comportamento del suo vicario Girolamo Del Pozzo a Triora. Il 25 gennaio il vescovo Fieschi inviò a Genova una circostanziata lettera scritta da Del Pozzo, con cui il vicario ingauno si giustificava del suo operato ispirato, secondo lui, a criteri di legalità e giustizia e non condizionato dalle decisioni del Parlamento triorese, discolpandosi in particolare dall'accusa di aver torturato ingiustamente con la tortura dei tratti di corda le streghe incarcerate, tra cui, come si è ricordato, la sessantenne Isotta Stella, che era morta proprio in seguito ai patimenti subiti, e la donna che si era gettata dalla finestra, di cui Del Pozzo giustifica la fine dicendo che si era buttata non per paura delle torture che le si minacciavano, ma perché "tentata" dal diavolo. Il vicario si discolpò anche dalle accuse di non aver provato a sufficienza la colpevolezza delle donne incarcerate e torturate, che, tenne a sottolineare, erano in numero inferiore a quello che si voleva esageratamente far credere.
Il nuovo atteggiamento assunto da Del Pozzo placò comunque l'ira del Consiglio degli Anziani, che in una lettera al governo genovese del 20 gennaio, si diceva sostanzialmente soddisfatto dell'operato di Del Pozzo, soprattutto per il fatto che il vicario del vescovo di Albenga aveva rinunciato a incarcerare delle donne appartenenti alla nobiltà locale, di cui molti membri facevano parte dello stesso Consiglio degli Anziani. Anche il podestà Carrega si associò al parere degli Anziani scrivendo una lettera al governo genovese il 21 gennaio, in cui difendeva l'operato dei due vicari scagionandoli tra l'altro dall'accusa di aver provocato con le loro torture la morte di Isotta Stella e dell'altra donna che era deceduta in seguito alla caduta dalla finestra. Intorno al 10 gennaio i due vicari erano nel frattempo partiti da Triora lasciando in carcere tutte le streghe arrestate.
Ai primi di febbraio il Parlamento triorese, con una lettera inviata al governo di Genova, supplicò i governanti genovesi di provvedere alla revisione dei processi contro le donne trioresi accusate di stregoneria affinché le colpevoli fossero punite e le innocenti liberate e il popolo di Triora liberato dall'onta di annidare al suo interno delle donne eretiche. Il governo genovese allora, anche per tutelare i legittimi diritti dei suoi cittadini, decise di inviare a Triora l'Inquisitore Capo, che vi giunse ai primi di maggio del 1588. Egli ascoltò le donne incarcerate, che era erano detenute da cinque mesi e che negarono tutte, tranne una, quanto avevano confessato in precedenza ai due vicari, e decise di tenerle tutte in carcere meno una, una fanciulla di 13 anni, che venne liberata e il 3 maggio abiurò nella chiesa della Collegiata durante la celebrazione di una messa solenne.
L'8 giugno 1588 giunse a Triora il commissario straordinario Giulio Scribani, inviato dal governo genovese per fare chiarezza sui processi intentati alle streghe. Qualche giorno dopo l'arrivo del commissario Scribani, il nuovo podestà del paese Giovanni Battista Lerice, in seguito ad un ordine ricevuto dal Padre inquisitore di Genova, mandò a Genova per la revisione del processo le streghe detenute nelle carceri di Triora. Il locale bargello, ossia il capo della polizia, Francesco Totti si occupò del trasferimento delle tredici donne trioresi accusate di stregoneria, che gli vennero consegnate il 27 giugno. Intanto Scribani intentò regolari processi a diverse donne di Triora e dei dintorni, arrestandone diverse e sottoponendole ad atroci torture, che provocarono da parte del popolo le stesse lagnanze che si erano avute contro i due vicari qualche tempo prima.
Secondo una relazione inviata in giugno al governo genovese, Scribani individuò tre donne di Andagna, Bianchina, Battistina e Antonina Vivaldi-Scarella, che, benché non sottoposte ad alcun tormento, si erano dichiarate colpevoli di enormi delitti, tra cui anche omicidi di bambini innocenti di Andagna. Il commissario intentò processi anche contro una ventina di donne di Castelfranco, Montalto Ligure, Porto Maurizio e Sanremo. Il 22 luglio Scribani mandò quindi a Genova i verbali degli interrogatori delle streghe accompagnandoli con la richiesta di condanna a morte per quattro donne di Andagna. Appena ricevuta la documentazione inviata da Scribani, il governo della Repubblica affidò al suo auditore e consultore Serafino Petrozzi il compito di decidere in merito alle richieste avanzate da Scribani. Petrozzi respinse però tutte le conclusioni e le proposte di pena del giudice Scribani, sostenendo che non si potevano adottare provvedimenti punitivi mancando delle prove certe e inconfutabili.
Il primo di agosto il governo genovese invitò quindi Scribani, a cui era stata prorogata di un mese la missione a Triora, a mandare le prove relative ai delitti commessi dalle streghe come richiesto dall'auditore Petrozzi. Sette giorni dopo, l'8 agosto, Scribani rispose da Badalucco che non poteva inviare alcuna prova in quanto i delitti o erano stati commessi molto tempo prima cadendo perciò nell'oblio o erano avvenuti in luoghi fuori dai confini della Repubblica genovese. Sostenne però che i delitti consumati dalle quattro streghe di Andagna erano tutti sufficientemente provati. Nonostante ciò, in seguito alle obiezioni avanzate dal governo genovese, egli dovette rifare i processi a carico delle streghe di Andagna, che, con sentenza emessa il 30 agosto, vennero condannate a morte.
A Genova si decise allora di affiancare due altri commissari, il podestà Giuseppe Torre e Pietro Alaria Caracciolo, al giudice Petrozzi affinché si pronunciassero nuovamente sulle decisioni prese da Scribani. Messisi subito al lavoro, i tre giudici, contrariamente a quanto stabilito in un primo tempo, diedero parere favorevole alla condanna a morte delle quattro streghe di Andagna e di altre due streghe di Badalucco e Castelfranco, Peirina Bianchi e Gentile Moro. Dopo la decisione dei tre giureconsulti, il Senato genovese approvò la condanna a morte di cinque delle streghe accusate di delitti ordinando contemporaneamente di scrivere al vescovo di Albenga, affinché, prima che venissero eseguite le condanne a morte, le cinque condannate fossero riconciliate con la Chiesa.
Poco prima però di dar corso alle sentenze contro le cinque streghe con impiccagione e conseguente bruciatura dei cadaveri da eseguirsi quattro a Triora o ad Andagna e una a Castelfranco, giunse da Genova l'opposizione all'esecuzione delle sentenze da parte del Padre Inquisitore, che sostenne che prima di eseguire qualsiasi condanna a morte nel territorio della Repubblica genovese, spettava a lui, ossia alla Santa Inquisizione di Roma da cui egli dipendeva, fare il processo sui quali aveva diritto di giurisdizione l'autorità ecclesiastica.
Il 27 settembre 1588 il governo genovese informò quindi la Congregazione del Sant'Uffizio di Roma di aver accolto la domanda del Padre Inquisitore. Nel mese di ottobre il commissario Scribani inviò a Genova le quattro streghe di Andagna e una certa Ozenda di Baiardo, lamentando il fatto che la popolazione locale era rimasta molto delusa per la mancata esecuzione delle cinque condannate. Giunte a Genova via mare, le cinque donne vennero subito rinchiuse nelle carceri dell'Inquisizione. Poco tempo dopo il governo genovese mandò a Roma agli uffici della Congregazione del Sant'Uffizio gli atti relativi ai processi alle streghe incriminate.
La Congregazione tenne però gli atti per lungo tempo senza addivenire ad alcuna decisione tanto che il doge e i governatori genovesi scrissero più volte a Roma nel febbraio e nell'aprile del 1589 affinché il Sant'Uffizio prendesse quanto prima una decisione in merito. Il 28 aprile 1589 il cardinale di Santa Severina, a nome della Congregazione, assicurò il governo di Genova che erano stati impartiti ordini tassativi per una rapida conclusione della causa.
Il 27 maggio il doge e i governatori di Genova sollecitarono nuovamente la Congregazione, tramite il cardinale genovese Sauli, perché concludesse in tempi brevi la revisione del processo. Intanto, delle donne accusate di stregoneria detenute nelle carceri dell'Inquisizione genovese, due, tra quelle condannate a morte, erano nel frattempo decedute, mentre, delle tredici inviate da Triora nel giugno 1588, tre erano morte e le altre erano state probabilmente rimandate libere al loro paese natale. Il 28 agosto 1589 il cardinale di Santa Severina annunciò al governo genovese che il procedimento di revisione del processo era finalmente terminato.
Da quanto riferito dal cardinale di Santa Severina al governo di Genova, si può dedurre che il tribunale della Santa Inquisizione aveva presumibilmente cassato alcune delle condanne a morte comminate dall'autorità ecclesiastica genovese, stabilendo con ogni probabilità che le ultime tre streghe rimaste ancora nelle carceri genovesi venissero scarcerate. Nello stesso mese di agosto la Santa Inquisizione decise anche di aprire un procedimento contro il magistrato genovese Giulio Scribani per aver invaso il campo riservato all'autorità ecclesiastica.
Di fronte però alla strenua difesa dell'operato del proprio giudice sostenuta dalla Repubblica genovese, che ne aveva raccomandato l'assoluzione, i cardinali inquisitori decisero intorno al 10 agosto di assolvere Scribani con formula piena purché egli ne facesse pubblica richiesta al vicario arcivescovile di Genova, come infatti avvenne pochi giorni dopo. Il processo alle streghe di Triora del 1588 contribuì tra l'altro a mettere in luce le complesse motivazioni che erano alla base dei contrasti tra Stato e Chiesa in merito ai processi alle streghe, la grande facilità con cui tribunali di diversa natura si rimproveravano tra loro di eccessiva severità e le non lievi responsabilità dei giudici dell'epoca nel condannare senza adeguate prove, e spesso alla pena capitale, le donne accusate di stregoneria.
Il 6 gennaio 1592, sotto il governo del podestà Lodisio Canessa, il Parlamento generale affidò ad una commissione di esperti e giureconsulti il compito di riformare gli Statuti comunali del paese, la cui prima redazione risaliva alla fine del XIII o all'inizio del XIV secolo. Concluso il lavoro di riforma, gli Statuti vennero quindi approvati dal Senato di Genova il 3 novembre 1599; successive riforme furono attuate nel 1605 e nel 1620. In precedenza agli Statuti trioresi, che dovevano essere confermati ogni dieci anni dal Senato genovese, erano stati aggiunti 40 capitoli nel 1540; da quella data in poi non si parlò più di statuti, bensì di "capitula", cosicché i primi diventarono la legge e i secondi il regolamento che si doveva leggere pubblicamente davanti a tutto il popolo due volte l'anno nei mesi di gennaio e luglio. Gli Statuti rappresentarono la norma giuridica, etica e sociale a cui si informò tutta la vita triorese dal tempo della loro prima promulgazione fino all'età napoleonica, quando gli Statuti vennero abrogati.
Queste leggi regolavano inoltre minuziosamente anche la vita e l'attività economica del piccolo borgo ligure. Gli Statuti erano parte integrante dell'organizzazione statale di Genova in qualità di leggi locali e non si occupavano di gran parte del diritto privato, per cui era competente un magistrato locale, il pretore, che rinviava al tribunale di Genova le cause che non avevano trovato soluzione a Triora. La competenza dei magistrati locali si limitava esclusivamente ai reati espressamente previsti dagli Statuti.
Gli Statuti si soffermano nella prima parte sulle principali istituzioni politiche del comune di Triora, ad eccezione del podestà che, pur essendo il capo formale dell'amministrazione comunale, era un funzionario statale nominato direttamente da Genova. Gli organi più importanti del comune erano il Parlamento generale, il Consiglio dei Ventiquattro e il Consiglio degli Anziani. Gli altri uffici comunali erano costituiti dai sindaci, gli ispettori, gli stimatori, gli stanzieri, i campari che costituivano il corpo della polizia rurale, i rasperi, i notai, i ragionieri, gli scrivani pubblici, i massari e i magazzinieri.
Il Parlamento generale o Consiglio maggiore era la principale assemblea popolare del comune ed era eletta da un terzo degli abitanti di Triora e delle tre frazioni di Andagna, Corte e Molini. Le adunanze del Parlamento si tenevano nella sala comunale detta della "caminata", oppure nella chiesa della Collegiata, che ne fu la prima sede. Ogni decisione del Parlamento doveva essere approvata all'unanimità e, per essere valida, dovevano essere presenti almeno due terzi dei consiglieri, come erano detti i membri del Parlamento. L'elezione dei consiglieri avveniva a cadenza annuale da parte dei cosiddetti "grandi elettori", appositamente designati dal Consiglio minore.
I "grandi elettori", in numero di 14 (8 per Triora e 6 per le frazioni) erano designati dal Consiglio minore in una pubblica adunanza, che si teneva la prima domenica di aprile. La domenica successiva questi elettori prestavano giuramento nelle mani del pretore assicurando di scegliere i membri del Parlamento generale tra i cittadini con almeno vent'anni che si fossero particolarmente distinti per doti morali nel rispetto di Dio e del bene della collettività. Nella settimana seguente i "grandi elettori" preparavano le liste dei candidati, che, nella terza domenica di aprile, venivano eletti nominativamente con il sistema dei sassolini bianchi e neri. Al Parlamento generale spettava l'approvazione della nomina dei sindaci, degli anziani, dei ragionieri e degli stimatori eletti dal Consiglio minore. Il Parlamento aveva inoltre il potere di introdurre nuove tasse e di abrogare quelle in vigore.
Il Consiglio dei Ventiquattro rappresentava invece il vero e proprio governo del paese, con il potere di ratificare i trattati stipulati con i paesi vicini e di nominare gli ambasciatori del comune. La prima domenica di maggio, il Parlamento generale, in seduta comune, eleggeva 7 "grandi elettori", che, appena nominati, eleggevano in seduta segreta i 24 membri del Consiglio dei Ventiquattro (18 di Triora e 6 dei paesi minori), che dovevano essere tutti membri del Parlamento generale.
Una volta insediatisi, i 24 consiglieri eleggevano tra di loro un priore, che aveva il compito di sottoporre all'assemblea le questioni da esaminare. Il Consiglio, a cui spettava l'elezione di tutti gli ufficiali del comune, godeva di un appannaggio di 100 lire annue.
L'amministrazione della giustizia era affidata al Consiglio degli Anziani, che erano quattro, tre di Triora e uno di una delle tre frazioni, a rotazione annuale. Le sedute del Consiglio, che si tenevano il primo giovedì del mese, erano presiedute dal pretore, che era la massima carica della magistratura locale. Le sentenze di condanna erano valide se votate da almeno tre membri del Consiglio, mentre per quelle di assoluzione ne erano necessarie altrettante. I sindaci erano invece sei: il sindaco e il vicesindaco di Triora e i tre vicesindaci di Andagna, Corte e Molini, ed avevano il compito di difendere gli interessi del comune sui beni demaniali che gli appartenevano da atti giudiziari che li potessero danneggiare.
Erano inoltre chiamati a difendere i privati da malversazioni e abusi operati da magistrati o pubblici ufficiali. I due ispettori comunali avevano invece la funzione, sotto la direzione del pretore, di sorvegliare gli altri dipendenti del comune per controllarne l'operato con il potere di comminare sanzioni pecuniarie agli eventuali trasgressori.
Gli stimatori, eletti annualmente in numero di quattro, tre per Triora e uno per le frazioni, a turno, erano incaricati di varie mansioni, tra cui quella della manuntezione e dell'ampliamento delle strade e delle mulattiere, della designazione dei confini delle terre che il comune dava in concessione ai privati e dell'esecuzione dei pignoramenti. Le funzioni annonarie, di controllo cioè sui prezzi delle carni, del pane, del vino e dei generi che si vendevano al dettaglio, erano svolte invece dagli stanzieri. Alle operazioni di polizia rurale erano destinati i campari, 12 per Triora e 2 per ogni frazione, eletti dal Consiglio dei Ventiquattro, che avevano il compito di sorvegliare il territorio comunale diviso in diverse zone, ciascuna assegnata a un camparo.
Ai rasperi spettava invece il compito di tutelare i boschi e i beni del comune e di stimare i danni superiori alle 12 lire di cui non si era trovato il colpevole. I notai, pur non essendo propriamente dei pubblici funzionari, svolgevano un ruolo importante stilando le convenzioni di matrimonio, le donazioni e i testamenti privati e pubblici. I ragionieri avevano invece la funzione di tenere un registro delle pratiche comunali che era conservato nella cassaforte del comune e in cui erano registrate le entrate e le uscite del bilancio comunale. Ai magazzini comunali erano infine preposti i magazzinieri, che erano responsabili dei generi alimentari conservati nei magazzini.
Gli Statuti contenevano anche delle norme che regolavano la riscossione delle tasse da parte degli esattori comunali, che dovevano esigere i tributi nei due anni successivi alla consegna nelle loro mani del registro delle tasse comunali. Le tasse si dividevano in imposte sugli immobili, imposte indirette come le gabelle, e tributi che dovevano versare i forestieri che soggiornavano a Triora. Nel campo del diritto civile, gli Statuti presentavano delle disposizioni che riguardavano i lanci di pietre e le immissioni di fumo nei fondi altrui, le distanze tra gli alberi, lo stillicidio, la regolamentazione e l'utilizzazione delle acque, l'occupazione e l'usucapione dei terreni e i contratti di lavoro.
Per quanto concerne i beni demaniali, gli Statuti dettavano le norme che regolavano le concessioni amministrative per coltivare le terre comunali ed edificarvi determinate costruzioni, la tutela del patrimonio forestale e boschivo, la manutenzione delle sorgenti e delle fonti pubbliche, l'igiene pubblica con particolare riferimento alla pulizia ed al riattivo delle vie e la salvaguardia degli incendi.
Il diritto penale, pure contemplato negli Statuti, consisteva in una specie di tariffario, cioè un elenco dell'ammontare delle sanzioni pecuniarie che dovevano pagare coloro che si fossero resi responsabili di un reato, la cui punizione in termini di multa era direttamente proporzionata alla gravità dello stesso. Era prevista solamente una responsabilità oggettiva per essere punibili, cioè era sufficiente l'aver provocato il danno anche se incoscientemente e involontariamente, la recidiva portava ad un aggravamento della pena, e le pene erano esclusivamente di natura pecuniaria in rapporto al danno provocato, mentre, per i delitti più gravi, come gli omicidi, vigevano le leggi genovesi, che prevedevano anche l'impiccagione, il carcere o anni di remo sulle galere della Repubblica di Genova.
Gli Statuti contenevano inoltre delle norme che regolamentavano le attività agricole, la pastorizia, il commercio, la caccia e la pesca. In particolare, al tradizione mercato pubblico del giorno di San Lorenzo (10 agosto) venne affiancato un mercato da tenersi nel giorno di Santa Croce a maggio. Negli Statuti sono inoltre contenute norme che regolavano la tessitura e la vendita dei panni, l'attività dei mugnai, obbligati a macinare tutto il grano che veniva loro consegnato, dei fornai, tenuti a cuocere bene il pane, e dei tavernieri, che non dovevano permettere ai loro avventori di giocare a dadi o ad altri giochi d'azzardo; vi sono anche prescrizioni sulla vendemmia, il cui inizio era consentito solo dopo il giorno di San Michele (29 settembre) nella maggior parte del territorio triorese e dopo il 10 ottobre nel Villaro.
Varie disposizioni regolavano invece la gestione del patrimonio zootecnico locale con precise indicazioni riguardanti ad esempio le mulattiere attraverso le quali era concesso passare con il bestiame radunato in mandrie. La caccia non era invece direttamente regolamentata dagli Statuti, che tuttavia prevedevano dei premi in denaro per chi avesse ucciso determinati animali selvatici, mentre precise norme regolavano la disciplina della pesca, che non poteva essere effettuata con la rete o il barrello e sulla cui regolarità vigilava un guardiapesca stipendiato dal comune, il "gabellottus". Per quanto riguarda invece le procedure giudiziarie, gli Statuti di Triora non facevano alcuna distinzione tra procedura penale e procedura civile, prevedendo un'unica procedura valevole per qualsiasi questione presentata al tribunale locale.
E' opportuno a proposito sottolineare come la stragrande maggioranza delle norme di diritto contenute negli Statuti riguardassero quasi esclusivamente reati contravvenzionali, mancando del tutto norme che regolassero i delitti più gravi come l'omicidio, su cui poteva giudicare solo il podestà, osservando scrupolosamente quanto previsto dalle leggi della Repubblica di Genova. La competenza del pretore, il magistrato locale, era limitata esclusivamente alle disposizioni scritte negli Statuti, mentre per tutte le altre questioni legali era competente il foro di Genova, a cui il pretore triorese trasmetteva le cause.
Mentre era ancora in corso il lavoro di revisione degli Statuti, nel 1596, la chiesa di Andagna venne staccata dalla parrocchia madre di Triora. Due anni dopo, nel 1598, iniziarono dei lavori di ingrandimento della chiesa romanica della Collegiata. Risale invece al 1605 la cessazione ufficiale del titolo di podestà del comune di Triora, sostituito con quello di sindaco, anche se nei secoli precedenti i due titoli erano stati usati contemporaneamente, essendo in carica nello stesso tempo un sindaco e un podestà, ed anche dopo il 1605 i due titoli furono utilizzati indifferentemente ancora per qualche tempo.
Con un rescritto pontificio del 26 giugno 1610, la chiesa triorese di San Francesco, edificata nel 1593, venne aggregata alla basilica di San Giovanni in Laterano di Roma, ed divenne perciò possibile per i trioresi lucrarvi l'indulgenza plenaria quotidiana. Nel 1612 il patrizio romano e oriundo triorese Cesare Velli ottenne da papa Clemente VIII la concessione di speciali indulgenze per gli iscritti e le iscritte alle due confraternite di Triora, quella di San Giovanni Battista e quella di San Dalmazzo.
Otto anni più tardi, nel 1620, il canonico triorese Giovanni Velli, addetto alla collegiata di San Nazàro Maggiore di Milano, lasciò in eredità ai canonici di Triora la somma di diecimila lire. Il prelato lasciò inoltre delle rendite per la fondazione nel suo paese natale di una scuola di latino, che, esistente ancora agli inizi del Novecento, era detta appunto del "lascito Velli". Tre anni dopo, nel 1623, un'altra chiesa locale si staccò dalla chiesa madre: la chiesa di Corte venne scissa dalla Collegiata triorese.
Nell'estate del 1624 il duca di Savoia Carlo Emanuele I, con l'appoggio della corte di Francia, decise di attaccare la Repubblica di Genova per impadronirsi dei territori della Riviera ligure che erano ancora sotto il dominio genovese. In particolare, il casus belli fu rappresentato dall'acquisto nel 1622, da parte del governo genovese, del marchesato di Zuccarello, ambito fortemente dal duca di Savoia. Nel mese di settembre si tenne un convegno a Susa, a cui parteciparono il duca Carlo Emanuele I, l'inviato della regina di Francia Maria de' Medici maresciallo Lesdiguières, l'ambasciatore francese in Piemonte e l'ambasciatore della Repubblica di Venezia.
Nel corso del convegno venne deciso di muovere una guerra contro la Repubblica di Genova, al termine della quale i francesi avrebbero avuto la Corsica e lo stato di Genova fino a Savona, mentre al duca di Savoia sarebbe spettato il marchesato di Zuccarello e tutte le terre da Ormea e Oneglia fino a Nizza. Fu inoltre stabilito di attaccare subito lo stato genovese attraverso l'appennino ligure. Una volta varcato il confine che divideva il genovesato dal Monferrato, sul cui territorio il duca di Mantova diede libero accesso all'esercito del duca di Savoia, le truppe franco-piemontesi ottennero subito delle vittorie militari su quelle genovesi a Voltaggio e a Gavi.
Dopo che, per dissensi ai vertici del comando, i franco-piemontesi ebbero rinunciato a porre l'assedio a Genova, Carlo Emanuele I decise di indirizzare gli sforzi delle proprie truppe per la conquista della Riviera di Ponente, inviandovi settemila fanti, quattrocento cavalli e i figli Vittorio Amedeo e don Felice di Savoia. Il principe Vittorio Amedeo pose subito l'assedio a Pieve di Teco, strenuamente difesa dai fanti genovesi guidati da Girolamo Doria, che però cadde dopo cinque giorni di assedio e venna messa a ferro e fuoco dai piemontesi. In seguito anche altre città della Riviera, tra cui Albenga, Alassio, Porto Maurizio, Oneglia, Sanremo e Ventimiglia caddero senza opporre resistenza di fronte all'urto delle forze piemontesi, a cui dovettero pagare forti somme di denaro per evitare di essere sottoposte al sacco.
Il 7 agosto 1625 truppe franco-piemontesi con 500 soldati provenienti da Sospello e comandate dal commendatore francese Dandelot e da don Felice di Savoia, posero l'assedio a Triora. La popolazione triorese decise allora di resistere ad oltranza all'assedio opponendo una resistenza eroica e disperata con l'aiuto anche delle milizie cittadine e di quelle inviate da Genova. Quando però il 20 agosto i trioresi stavano per arrendersi e consegnare gli ostaggi al nemico, giunsero a Triora delle truppe ausiliarie provenienti da Taggia, Porto Maurizio e Sanremo guidate dal capitano G. Vincenzo Lercari, che costrinsero gli assedianti, tornati alla carica con 4000 soldati agli ordini di don Felice di Savoia, a togliere l'assedio al paese ed a tornarsene a Sospello, dove condussero prigionieri 130 ostaggi.
Durante i durissimi giorni dell'assedio, si distinse in modo particolare nell'incitare la popolazione a resistere agli attacchi del nemico il capitano genovese Pietro Antonio Cornero, che cadde in combattimento il 12 agosto nel corso di uno scontro a fuoco tra soldati genovesi e franco-piemontesi nei primi giorni dell'assedio del paese e venne poi sepolto nei sotterranei della sacrestia della Collegiata triorese, dove un'iscrizione ne ricorda il sacrificio. La felice conclusione dell'assedio, avvenuta il 20 agosto, giorno della festa di San Bernardo di Chiaravalle, indusse i trioresi ad attribuire all'intercessione del santo il merito principale della vittoria sui franco-piemontesi.
La comunità di Triora e quella delle tre frazioni, Molini, Andagna e Corte, decisero allora che da quell'anno in poi il 20 agosto sarebbe stato un giorno festivo per commemorare l'intervento di San Bernardo a favore di Triora, e che gli abitanti dei quattro paesi, in quell'occasione, si sarebbero recati in processione alla chiesa dei Santi Pietro e Marziano di Triora, che sarebbe stata restaurata in onore di San Bernardo, a cui sarebbe stato dedicato anche un altare nello stesso edificio religioso. Fallito anche un tentativo di impadronirsi di Genova attraverso una sollevazione interna, Carlo Emanuele I stipulò la pace con Genova nel 1641.
Nel maggio 1631, sei anni dopo l'assedio del 1625, il magistrato di Guerra di Genova inviò a Triora il commissario alle Armi della Repubblica Giovanni Vincenzo Imperiale con il compito di compiere un'ispezione delle fortezze del borgo. Imperiale stese quindi un'ampia relazione della sua visita in cui erano sottolineate la posizione strategica dei forti trioresi e il valore militare, unito alla tenacia e l'intraprendenza nel lavoro, dei suoi abitanti. L'anno successivo venne edificato su pilastri altissimi per portarlo all'altezza della piazza della Collegiata l'oratorio di San Giovanni Battista. In seguito, con decreto della Repubblica di Genova e relativo atto di divisione rogato dal commissario Giacomo Negrone il 2 maggio 1654, i paesi di Molini, Andagna e Corte ottennero la piena autonomia amministrativa da Triora con facoltà di dotarsi di un proprio consiglio o parlamento, che sarebbe rimasto in vigore fino alla proclamazione della Repubblica ligure il 14 giugno 1796.
Nel 1656 la popolazione triorese venne letteralmente decimata da una grave peste, che, partita dal porto di Villafranca, dilagò in tutta la Liguria. Dieci anni dopo, nel 1666, in relazione alla necessità di riformare le leggi ecclesiastiche locali, il pontefice Alessandro VII emanò una bolla, intitolata Provisionis canonicatus collegiatae et parochialis loci Triorae, che trattava degli obblighi e degli onori canonicali del parroco e degli altri prelati residenti a Triora. Nel 1670, essendo sorte delle contese fra Triora e Briga in merito all'intricata questione dei confini tra i due comuni, il re di Francia Luigi XIV inviò a Triora in qualità di legato con il compito di risolvere la questione confinaria tra i due paesi l'abate Ugo Servient.
Dopo esser giunto a Triora ed aver attentamente esaminato i termini giuridici della contesa confinaria, l'abate francese pronunciò un laudo o arbitrato sulla questione sulla sommità del monte Marta. Il tentativo di mediazione compiuto dall'abate Servient non risolse però affatto la contesa inosorta tra i due paesi tanto che l'anno successivo il duca di Savoia Carlo Emanuele II, prendendo proprio a preteso la situazione permanente di attrito tra Triora e Briga per la questione dei confini e dei pascoli ai confini dei loro territori, dichiarò nuovamente guerra alla Repubblica di Genova.
Per tutto il 1672 il territorio di Triora divenne dunque teatro di una serie di sanguinosi scontri militari tra le truppe piemontesi e quelle genovesi, nel corso dei quali le campagne circostanti il paese vennero pesantemente devastate e le masserie sparse sul territorio saccheggiate e messe a ferro e fuoco. A Triora vennero inoltre stanziati migliaia di soldati genovesi, cinquecento dei quali ingaggiarono uno scontro armato con le forze piemontesi sul colle del Pizzo. Dopo due anni di aspro conflitto sulle montagne prospicienti Triora, il duca di Savoia pervenne infine ad una nuova pace con Genova che venne stipulata il 18 gennaio 1673.
Intorno al 1700 la popolazione triorese e delle tre frazioni di Molini, Andagna e Corte raggiunse il culmine della sua consistenza numerica nell'età moderna, come risulta dal registro parrocchiale dei residenti nati e morti in quel periodo. Nel 1711 soggiornò a Triora per tenervi una serie di seguitissime prediche il famoso oratore padre Paolo Segneri iunior. Oltre trent'anni dopo, nel 1745, durante la guerra di successione austriaca, Triora venne occupata da un corpo di spedizione spagnolo. In questa occasione il vescovo di Albenga diede facoltà al parroco di Triora di permettere che i soldati disertori, rifugiatisi nelle chiese e nei conventi del paese, venissero catturati senza però che questi fossero sottoposti a processo e che i catturanti incorressero nella scomunica.
Il presule ingauno diede anche disposizioni affinché i feriti e i cadaveri dei soldati venissero portati all'infuori di chiese e ospedali in modo che le autorità militari potessero effettuare il bilancio degli scontri tramite la ricognizione dei morti e dei feriti.
Intorno al 1755, su iniziativa del gesuita triorese padre Antonio Stella, vennero trasportate a Triora le ossa di un giovane martire, detto Tusco, provenienti dalle catacombe di Roma e risalenti al periodo delle grandi persecuzioni contro di cristiani del III secolo. Le autorità comunali e religiose ne istituirono quindi la festa solenne, accompagnata da una grande fiera, da tenersi annualmente la seconda domenica di luglio. Il 28 novembre 1756, dopo oltre un anno di devastazione dei vigneti locali da parte dei bruchi e dei campi di grano da uno sciame di cavallette, il Parlamento triorese istituì la festa e la processione penitenziale detta del Monte per ottenere la liberazione dalla tremenda pestilenza. La festa del Monte si celebra ancora oggi la seconda domenica dopo Pasqua.
Nel 1770 furono eseguiti grandiosi lavori di rifacimento della chiesa romanica della Collegiata, che venne così trasformata in una chiesa barocca. Nell'ambito di questi lavori di ristrutturazione, venne anche data una nuova forma a cupola all'antico campanile a cuspide della Collegiata, il cui quarto giro, costituito da quattro colonnine centrali di pietra, fu sostituito dalla nuova cella campanaria. Intorno al 1773 iniziò ad impartire l'insegnamento del latino presso la locale scuola retta dai francescani e diretta da don Bartolomeo Gazzano, il beato Giovanni Lantrua, che si recava nella scuola francescana, detta del lascito Velli, salendo quotidianamente a Triora dal sottostante paese natio di Molini. Nel 1781 giunse invece a Triora il vescovo di Albenga Stefano Giustiniani per effettuarvi la periodica visita pastorale.
Dopo lo scoppio della rivoluzione in Francia, le truppe francesi invasero nel settembre 1792 la Savoia appartenente al regno di Sardegna, il cui sovrano Vittorio Amedeo III si era poco prima alleato con l'Austria. Il 29 settembre le avanguardie dell'esercito francese, comandate dal generale Andrea Massena, occuparono Nizza e tutta la fascia costiera della contea nizzarda. La buona linea difensiva predisposta dai piemontesi impedì però all'esercito francese di penetrare nelle valli Roia e Vesubia. Subito dopo a Parigi la Convenzione proclamò l'annessione di Nizza e della Savoia alla Francia.
Nel 1793, dopo l'esecuzione di Luigi XVI e l'entrata in guerra della Francia con tutti gli Stati monarchici d'Europa, l'armata francese in Italia venne aumentata a ventimila uomini e posta alle dirette dipendenze del generale Biron, che riuscì a penetrare nell'alta valle Vesubia. Anche alle truppe piemontesi, in seguito ad una convenzione con l'Austria, vennero aggiunti rinforzi costituiti da un corpo di soldati autriaci ammontanti a ottomila unità. Assunse quindi il comando del corpo di spedizione austro-piemontese sulle Alpi Marittime il generale di Sant'Andrea, mentre al vertice di tutte le truppe austriache e piemontesi venne nominato il generale austriaco De Vins, che avrebbe diretto le operazioni belliche da Torino.
La vetta dell'Authion divenne il fulcro della resistenza piemontese, che resse bene all'impatto delle forze francesi, che vi sferrarono tra il febbraio e il giugno 1793 quattro furiosi attacchi senza tuttavia riuscire ad impadronirsene. L'8 giugno 1793 avvenne un durissimo e sanguinoso scontro tra francesi e piemontesi con ingenti perdite da ambo le parti. Nel settembre successivo le truppe piemontesi tentarono di forzare lo sbarramento nemico e penetrare nella contea di Nizza, ma, dopo diversi furibondi attacchi respinti dai francesi, dovettero rinunciarvi.
Dopo che era fallito anche un analogo tentativo francese di penetrare in Piemonte attraverso la val Roia, il generale Massena e il giovane Napoleone Bonaparte, il futuro imperatore dei francesi, suggerirono al comandante generale delle armate francesi sul fronte italiano Dumerbion un nuovo piano strategico da attuarsi nella primavera del 1794, una volta terminata la stagione invernale. Il piano prevedeva l'aggiramento della stretta di Saorgio attraverso i passi di Collardente e Tanarello dopo aver occupato i pilastri laterali di Marta e Saccarello e la stretta di Ponte di Nava in val d'Arroscia. Basi di partenza per queste operazioni avrebbero dovuto essere Triora e il colle di Nava, che però appartenevano alla Repubblica di Genova da poco dichiaratasi neutrale. Le difficoltà derivanti dalla neutralità di Genova vennero però superate de facto con l'occupazione dei suddetti territori da parte delle truppe francesi.
Il 6 aprile 1794 le avanguardie dell'esercito francese, guidate dal generale Arena, varcarono i confini della Repubblica di Genova ed occuparono Ventimiglia. Una divisione francese, comandata dal generale Massena, per accerchiare le forze piemontesi che presidiavano monte Grande, entrò in val Nervia, raggiunse Pigna e Castelfranco, e, attraverso il passo di Langan, penetrò in valle Argentina. Una seconda divisione, agli ordini del generale Laharpe, rimase di presidio in val Nervia occupando Dolceacqua, mentre una terza, guidata dal generale Hammel, prese possesso del passo di Tanarda, tra monte Grai e Porta Bertrand, prospicienti l'abitato di Triora. Una quarta e ultima divisione, comandata dal generale Mouret, occupò il 9 aprile la città di Oneglia, l'unico porto di mare che era rimasto in mano ai piemontesi.
Lo stesso giorno, il generale Massena, che aveva fatto occupare Triora e vi aveva posto il suo quartier generale, prendendo alloggio nella casa dei Borelli ubicata nel quartiere Poggio, fece occupare a sua volta dalle truppe della divisione François monte Trono, sovrastante l'abitato triorese, in modo da contrapporre un valido schieramento alle postazioni piemontesi asserragliatesi sulle pendici del monte Pellegrino. Altri reparti appartenenti alla stessa divisione presero possesso dei monti Mónega e Grande per poter sorvegliare le mosse delle truppe avversarie schierate nei pressi del Ponte di Nava e del monte Fronté.
Nell'ambito dell'approntamento dello schieramento antipiemontese, il generale Massena ordinò anche il trasferimento a Triora dalla val Roia attraverso il passo di Langan della divisione guidata dal generale Hammel. Effettuati questi movimenti di truppe, il generale Massena scese da Triora a Oneglia la mattina del 12 aprile per tenervi un consiglio di guerra con i generali Mouret, Laharpe, Bonaparte e il tenente colonnello Rusca. Nello stesso giorno Massena impartì delle direttive alle sue truppe per sferrare un attacco alle postazioni nemiche nella stretta del Ponte di Nava. Ritornato a Triora, Massena si portò con le sue truppe al Colle di Nava, dove, insieme alla divisione del generale Mouret e all'artigliera comandata dal generale Bonaparte, sferrò un furioso attacco alle posizioni austro-piemontesi, che, nonostante una valida resistenza da parte del reggimento piemontese Lombardia, ebbe successo e si concluse con l'occupazione di Ormea il 17 aprile e di Garessio il giorno successivo.
Dopo aver ottenuto questo brillante risultato, il generale Massena rientrò a Triora, dove predispose il piano dettagliato dei futuri spostamenti delle sue truppe. La prossima azione prevedeva un'ampia manovra di aggiramento dello schieramento austro-piemontese allo scopo di penetrare in val Roia scendendo a nord della stretta di Saorgio e prendendo possesso dei passi di Collardente e Tanarello e le cime di Marta e Saccarello, tutti situati nell'alta valle Argentina. Il 25 aprile un primo attacco francese alle postazioni piemontesi sul monte Pellegrino venne respinto dai reparti comandati dal conte Saint Michel. Nel corso della giornata del 26 aprile gli zappatori del Genio, appartenenti al battaglione del tenente colonnello Rusca, eseguirono lavori oltre l'abitato di Realdo e nei pressi di monte Gerbonte per sgombrare la neve e riparare le mulattiere.
La mattina del 27 aprile partirono da Triora tre colonne di soldati francesi agli ordini del generale Hammel, mentre altre due si staccarono dalla regione retrostante il Saccarello e una terza dalla zona di Saorgio, alla volta dell'abitato di Loreto. Superata la gola di Loreto, le colonne, tra cui la principale era guidata dallo stesso Massena e dal tenente colonnello Rusca, si avviarono verso il passo di Collardente con l'obiettivo di far sloggiare i piemontesi dalla cima di Marta e penetrare quindi in val Roia.
La colonna comandata dal generale François ingaggiò subito uno scontro armato con una compagnia del reggimento Piemonte agli ordini del generale Vernata nei pressi del monte Pellegrino riuscendo però, grazie anche alla sovrabbondanza delle proprie forze rispetto a quelle piemontesi, a superare l'ostacolo e a raggiungere il monte Saccarello, dove si trovò di fronte le truppe piemontesi guidate dal tenente Di Montezemolo, che, dopo aver ricevuto consistenti rinforzi, riuscirono a respingere i ripetuti attacchi nemici.
Poco dopo i reparti piemontesi agli ordini del cavaliere Vialardi, coadiuvati da altri reparti mandati in rinforzo e guidati dal colonnello Bellegarde, ottennero un brillante successo sulle pendici del Saccarello sulla colonna francese del generale còrso Fiorella, che morì in combattimento insieme a trecento soldati e quindici ufficiali. Forti di questo successo, i piemontesi attaccarono anche la colonna del generale François, che venne sgominata e ricacciata in piena fuga e con grandi perdite su passo della Guardia e monte Pellegrino. Un altro battaglione francese venne duramente sconfitto nei pressi del monte Tanarello da un reggimento provinciale di Nizza. Al termine di questi combattimenti, i piemontesi, comandati dal colonnello Bellegarde, rimanevano i padroni assoluti della zona prospiciente i monti Fronté, Saccarello e Tanarello.
Sul fronte di Collardente la colonna francese guidata dal generale Bruslé ingaggiò un primo cruento scontro con le forze piemontesi e austriache presso il fortino di Tanarda, che si concluse con forti perdite da parte francese. Contemporaneamente, la colonna Hammel, con cui marciavano Massena e Rusca, sferrò un attacco violentissimo alle forze piemontesi presso la ridotta di Sansòn, che venne occupata dai francesi dopo un durissimo scontro corpo a corpo, che era costato quattrocento morti ai francesi e centocinquanta ai piemontesi.
Successivamente le colonne francesi guidate dai generali Hammel e Bruslé tentarono senza successo di impadronirsi del passo di Collardente, che venne strenuamente difeso dai reparti piemontesi. Dopo una notte di tregua, l'azione venne ripresa la mattina del 28 aprile con uno scontro presso le ridotte Linaire e Cima Piné tra la colonna francese agli ordini di Massena e Hammel e un battaglione del reggimento austriaco Belgioioso, che, datosi inspiegabilmente alla fuga, consentì alle forze francesi di dilagare verso la vallata sottostante.
Nelle prime ore della notte tra il 28 e il 29 aprile, il comandante della fortezza di Saorgio generale Saint Amour, vistosi minacciato di completo accerchiamento da parte delle truppe francesi, decise di ritirarsi con il suo presidio a Tenda nonostante il parere contrario dei componenti il consiglio di guerra della fortezza. Nel giugno successivo il generale Saint Amour sarebbe stato poi processato a Torino per aver abbandonato la fortezza di Saorgio disobbedendo agli ordini del comandante supremo generale Colli e conseguentemente condannato alla pena capitale e fucilato.
La sera stessa del 29 aprile le truppe del generale Massena scesero nella val Roia occupando Briga Marittima. L'avanzata verso il colle di Tenda venne poi ripresa solo il 7 maggio, dopo che le truppe francesi avevano abbandonato il presidio di Triora e della val Nervia. Le truppe di Massena occuparono quindi il colle di Tenda l'8 maggio, rimanendovi fino al 20 per riorganizzare le retrovie e i rifornimenti. L'anno successivo Massena avrebbe poi sconfitto i piemontesi in varie località liguri arrivando ad occupare Savona. A lui successe Bonaparte, che, dopo aver battuto i piemontesi a Montenotte e Millesimo, costrinse il re di Sardegna Vittorio Amedeo III a firmare l'armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), divenuto in seguito trattato di pace, siglato a Parigi il 15 maggio successivo, in attuazione del quale il re di Sardegna cedette Nizza e la Savoia alla Francia e accettò l'occupazione di parte del Piemonte da parte di alcune guarnigioni francesi.
Successivamente, in seguito alla proclamazione della Repubblica Ligure (31 febbraio 1797) direttamente dipendente dalla Francia, Triora entrò a far parte del nuovo distretto dell'Argentina, comprendente 13444 abitanti, con Taggia per capoluogo. Il 20 maggio, per sottolineare la rottura con il vecchio regime, anche a Triora vennero discalpellati gli stemmi gentilizi dei portali del paese e delle tombe nelle chiese. Nella piazza della Collegiata venne piantato l'albero della Libertà, cerimonia che si sarebbe ripetuta anche negli anni successivi, e si fecero feste pubbliche a cui parteciparono moltissimi abitanti al canto della "Carmagnola". Il 1° agosto il Governo provvisorio ligure emanò quindi la nuova costituzione democratica della Repubblica. Pochi giorni dopo, il 6 agosto, il popolo triorese, convocato nella chiesa parrocchiale, deliberò la soppressione dell'aumento sulla gabella degli erbaggi.
Il 14 settembre, con un decreto del governo provvisorio di Triora, venne stabilito di destinare una parte dei proventi dell'eredità lasciata al comune dal canonico triorese Giovanni M. Prevosto a favore dell'istruzione pubblica, mentre un'altra quota sarebbe stata utilizzata per costruire a Triora un ospedale per i poveri e realizzare un collegamento stradale con Briga. Nell'ambito poi della generale offensiva contro i membri del clero e i loro beni immobili, la municipalità triorese costrinse nello stesso 1797 i frati agostiniani a lasciare il loro convento e la chiesa di Sant'Agostino, edificata nel 1625, incamerandone i beni che ammontavano ad oltre centomila lire. Il 1797 venne anche funestato da una grave tragedia, che si consumò sulle alture della vicina Verdeggia, dove sedici persone morirono sepolte sotto una valanga di neve staccatasi dalle pendici del monte Saccarello.
Il 26 febbraio 1798 venne effettuato un censimento generale della popolazione del comune di Triora, che risultò ammontante a 9133 unità, di cui 2615 nel capoluogo, 1779 a Badalucco e 1155 a Castelfranco. Il 9 giugno la Liguria occidentale venne invasa dalle truppe piemontesi comandate dal conte Desgeney. A Triora si apprestarono le prime misure difensive con la trasformazione dell'oratorio di San Giovanni Battista in un luogo di concentramento delle truppe. Venne anche costituito un Comitato militare, presieduto dall'avvocato Luca Maria Capponi e dal cittadino Carabalone, che coordinò le operazioni militari dei volontari trioresi che si erano uniti ai soldati regolari dell'esercito genovese. Dopo poco tempo però Triora e il resto della Liguria occidentale dovettero capitolare e furono occupate dall'esercito piemontese.
Nel 1802 Triora fu incorporata nella Repubblica italiana, mentre due anni dopo passò sotto il Regno d'Italia. Nel 1802 si tenne anche un censimento della popolazione residente a Triora, da cui risultò che il comune era abitato da 5828 persone con un decremento dovuto alle numerose epidemie e carestie che avevano interessato la popolazione ligure alla fine del XVIII secolo. L'11 febbraio 1803, con decreto della Repubblica Ligure, vennero abrogati gli Statuti comunali trioresi insieme a quelli di tutti gli altri comuni della Liguria, anche se tali speciali leggi comunali rimasero formalmente in vigore a Triora ancora per qualche anno, almeno fino al 1819.
Pochi mesi dopo, il 2 giugno 1803, il governo della Repubblica Ligure emanò una legge in virtù della quale Triora veniva eretta a capoluogo dell'ottavo cantone della sesta giurisdizione, una delle sei divisioni amministrative in cui fu ripartito il territorio ligure, con residenza della municipalità e del giudice cantonale di prima classe. Il 2 dicembre 1804 il Senato di Genova supplicò l'imperatore Napoleone Bonaparte di annettere la Liguria all'Impero francese. La richiesta venne accolta ufficialmente il 5 maggio 1805. Con decreto infine del 17 pratile dell'anno XIII (5 giugno 1805), la Liguria venne riunita alla Francia e divisa in dipartimenti. Triora entrò a far parte dell'85° dipartimento delle Alpi Marittime, che aveva come capoluogo Nizza, in qualità di comune del secondo circondario di Sanremo.
Nel 1806, in ottemperanza a quanto disposto dal governo napoleonico a Saint-Cloud il 2 giugno 1804 sull'obbligo di seppellire i morti nei cimiteri anziché nei sotterranei delle chiese, anche a Triora si iniziò a seppellire i morti fuori dalle chiese e precisamente in un tratto di terreno, detto Trunchettu, adiacente all'antica chiesa parrocchiale di San Pietro. Tale zona era stata riservata fino al XIV secolo a luogo per le esecuzioni capitali, ossia le impiccagioni, che vennero poi trasferite nel Fortino, detto negli Statuti anche "carmo furcarum", cioè sommità delle forche. Prima del cimitero del Trunchettu, i defunti trioresi venivano sepolti nei sotterranei della chiesa della Collegiata, di San Francesco e di San Pietro. Il 25 marzo 1810 un decreto imperiale del governo napoleonico conferì a Triora il titolo di "Ville" (Città) come riconoscimento della particolare importanza politica e economica che il paese ligure aveva raggiunto sotto la dominazione francese.
Dopo l'abdicazione di Napoleone nell'aprile 1814 e il generale sfaldamento del suo vasto impero, a Genova venne ricostituita la Repubblica Ligure. Nel mese di maggio il sindaco di Triora, allora detto alla francese maire, Luca Capponi si recò a Genova, insieme ad una delegazione di altri sindaci della Riviera di Ponente, per esprimere al governatore inglese Lord Bentinck le sue felicitazioni per la restaurazione della Repubblica Ligure. La Repubblica era però destinata a breve vita in quanto i plenipotenziari europei riuniti a Vienna in congresso stabilirono che la Liguria, corrispondente al Ducato di Genova, sarebbe passata sotto la sovranità del Regno di Sardegna.
L'annessione del Ducato di Genova al Regno sardo venne ratificata con un trattato approvato a Vienna il 9 giugno 1815. Nello stesso anno il territorio del Regno di Sardegna fu diviso in province: Triora con tutto la zona compresa tra il fiume Varo e Oneglia sulla costa e fino a Tenda nell'entroterra venne inclusa nella provincia di Nizza, a cui sarebbe rimasta legata amministrativamente fino al 1860, mentre, per le riscossioni tributarie, venne messa alle dipendenze di Savona, capoluogo del dipartimento finanziario, a decorrere dal 18 aprile del 1815.
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